Il numero dei parlamentari e il costo delle istituzioni c’entrano poco con il referendum del 20 settembre. La scelta vera è tra due modelli di democrazia: quella rappresentativa e mediata, che costringe alla dialettica, e quella digitale che, attraverso clic immediati, mette tutto nelle mani dei leader.
di NANDO CIANCI
Depurata dai tatticismi dei partiti, dalle cortine fumogene della propaganda e dai veleni sparsi da molti gladiatori della tastiera (impegnati più a insultare chi la pensa diversamente che ad esporre ed argomentare le proprie ragioni), si può ragionevolmente ritenere che nel voto del 20 settembre il numero dei parlamentari da eleggere e il presunto risparmio c’entrino solo di sfuggita.
Ad essere in ballo, in realtà, sono due concezioni della democrazia e due idee di Parlamento.
Una, di tipo classico, è attestata sui valori compendiati nella nostra Costituzione, che fa perno su una democrazia rappresentativa fondata, a sua volta, sulla partecipazione popolare nel dibattito e nella determinazione delle scelte politiche. Se ne tratta, fra gli altri, nell’art. 1 (La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione), nell’art. 49 (Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale) e nell’intero Titolo I (Il Parlamento). Un processo che prevede la costante partecipazione dei cittadini associati, purché lo vogliano, nell’indirizzare i propri rappresentanti verso scelte nate nel seno della società e dal confronto tra base popolare, dirigenti politici ed eletti nelle istituzioni. E che lascia la responsabilità finale delle decisioni, comunque, alle istituzioni. L’aderenza a questo modello di democrazia comporta il mantenimento dell’attuale numero dei parlamentari per garantire una rappresentatività più estesa.