Pur armandosi di una forte dose di buon senso, riesce alquanto difficoltoso spiegarsi per quale ragione una parte consistente dei frequentatori di social si ostina a disputare puntigliosamente su argomenti di cui non sa assolutamente nulla.
Una prima riposta può forse individuarsi nel fatto che, affermando con vigore, e a volte con ferocia, la propria opinione ci si vuol sentire forti e sulla cresta dell’onda. In un mondo mediatico che – proponendo modelli di ricchezza, bellezza e fama irraggiungibili – produce continue frustrazioni[1], da qualche parte bisogna pur cominciare per costruire la propria autostima. Quando non si ha di meglio, lo si fa ora identificandosi con le gioie, i dolori e le angosce di una testa coronata, ora immaginandosi di essere l’eroe di una qualche Resistenza in corso nel mondo, ora pugnando con intrepido coraggio per affermare che le cose stanno come il proprio inarrivabile io scrive sui social, con il necessario corollario che chi si oppone ad una tal verità non può che essere annoverato tra i portatori di pesante deficit cognitivo.
Un’altra ragione, più profonda ma al tempo stesso connessa con la prima, sta nella direzione in cui scorre il fiume della nostra cultura generale, che è quella di un disseccamento del nostro patrimonio linguistico ed ideale (che ha, a sua volta, cause che richiederebbero una lunga analisi).
Già nel 2010 il linguista Tullio De Mauro pubblicava un famoso studio secondo il quale il 38 per cento degli italiani sapeva riconoscere lettere e numeri, ma aveva difficoltà evidenti di lettura, mentre il 33 per cento era in grado di leggere fluentemente le parole di uno scritto, ma ne capiva poco o nulla il significato. L’Ocse ha poi innovato i metodi di rilevazione e le varie fasce di capacità di lettura e comprensione, ma la situazione resta ancora molto seria.
Al fenomeno del leggere senza comprendere (analfabetismo funzionale) si accoppia, ovviamente, il conoscere un numero molto basso di parole. Una povertà che è in stridente contrasto con la straordinaria ricchezza di una lingua, l’Italiano, che è, per giunta, la quarta ad essere studiata nel mondo. Amata in ogni angolo del pianeta per la cultura e la bellezza che ad essa sono associate. La diffusa povertà linguistica si accompagna generalmente ad una povertà di pensiero: non si riesce ad elaborare pensieri di livello se non si ha una lingua per esprimerli (a meno che non si possegga una genialità artistica che trova altre strade di elaborazione e comunicazione). Un patrimonio linguistico povero e stentato non può che produrre pensieri banali e poco consistenti.
Ecco, allora, che torniamo alla seconda spiegazione di molte diatribe fondate sul nulla cui ci tocca assistere sui social. Molti appassionati tastieristi, in realtà, non capiscono quello che l’antagonista sotto tiro vuol dire (se e quando questi sta realmente dicendo qualcosa). E a volte non sembra nemmeno curarsene, felice com’è di avere l’occasione di battagliare, finendo con l’assumere l’involontaria comicità di quel personaggio shakespeariano che «sibilando parole di sfida/ al mio orecchio ha cominciato ad agitare la spada/ intorno al suo capo e a tagliare il vento,/ che, incolume, rispondeva coi suoi fischi di scherno»[2]. Per questa via il contenuto della discussione (su un argomento del quale spesso più di uno degli interlocutori non sa nulla) diviene irrilevante. Quel che conta è il dar corpo al proprio impulso di lotta e di autoaffermazione. E nascondere, per quanto involontariamente, la desolante vuotezza del proprio linguaggio e del proprio pensiero. Dare dello stupido all’altro diviene, così, facile ed economico in un doppio senso. Da un lato, con l'appioppare un drastico epiteto all'interlocutore ci si esime dalla fatica di cercare le parole per illustrare la propria divergente opinione; di tentare, cioè, di arricchire il personale vocabolario e costruirsene uno che consenta di stare con qualche decenza sui social. Dall’altra ci si risparmia la fatica di analizzare i contenuti dell’opinione altrui, di confrontarli con i propri e valutare se una qualche ragione stia anche nell’altro. Sempre che si abbia dei contenuti da proporre e che si sappia di cosa si stia parlando.
Va, infine, spezzata una lancia in favore delle nuove tecnologie di comunicazione, o almeno va evitato di gettare la croce solo su di esse. È vero che il mezzo di espressione condiziona il nostro modo di comunicare e, prima ancora, di pensare. Ma è altrettanto vero che la miseria linguistica dilagava allegramente anche prima dell' avvento degli attuali mezzi.
Occorrerebbe, perciò, ragionare seriamente sui cambiamenti che le tecnologie inducono in noi stessi, sulla scuola, sul livello culturale posseduto e propagato da quanti lavorano o sono seguiti da masse di persone su media e social e che perciò, sia pure involontariamente, concorrono all’educazione delle nuove generazioni. Sempre che noi si abbia le parole per tentare di avviare un tale ragionamento.
[1] Vale anche per gli attuali mezzi di comunicazione la sostanza di quel che Pier Paolo Pasolini scriveva per la tv in Sfida ai dirigenti della televisione, sul Corriere della Sera del 9 dicembre 1973.
[2] Shakespeare, Romeo e Giulietta, in Le tragedie, Mondadori, Milano, 1976, p. 31.