La trasformazione delle difficoltà in una assillante retorica della disperazione e dell’angoscia ostacola la coesione civica di cui abbiamo bisogno. E rischia di far crescere una generazione che vivrà nel rimpianto del tempo perduto.
di NANDO CIANCI
È certamente vero che la pandemia in corso ci ha bruscamente rimesso davanti la fragilità della condizione umana e ha fatto crollare il castello di sabbia sul quale – forti degli straordinari progressi della scienza e della tecnica – avevamo costruito l’illusione della nostra invincibilità. Ma è altrettanto vero che momenti complessi e difficili richiedono di porsi domande coraggiose, e qualche volta scomode, che normalmente tendiamo a rimuovere. Per esempio: abbiamo “scoperto” di essere fragili e vulnerabili. Ma non lo sapevamo già? E non sapevamo già dei disagi che incontrano nella crescita le nuove generazioni in un mondo in cui l’isolamento esisteva già da prima, camuffato dietro un navigare spesso senza senso in una rete che non offre porti e luoghi di condivisione reale di vita? E della qualità di quella presenza a scuola che oggi riteniamo, giustamente, così irrinunciabile, ci siamo occupati a sufficienza quando essa non era ostacolata dalla pandemia? E degli effetti nefasti dei tagli alla sanità pubblica, occorreva il Covid-19 per accorgersene? E si potrebbe continuare a lungo per dire come sulla pandemia sono stati scaricati problemi che, in molti casi, prima abbiamo trascurato. Proprio per questo i loro effetti negativi – già ampliati dalla crisi sanitaria – si moltiplicano ulteriormente in tutti i campi.