Da più parti si ritiene che la scuola sia slegata dalla realtà. Ma ha senso una tale affermazione? O, dietro di essa, si celano altre preoccupazioni? È possibile che milioni di ragazzi, ogni mattina, si incontrino con coetanei ed adulti in una dimensione separata dal mondo? O, invece, nella scuola la vita pulsa pienamente?
di NANDO CIANCI
Una delle lamentele più diffuse riguardo alla nostra scuola è che essa sarebbe separata dalla vita. Proviene dalle parti più disparate e con intenti diversi. Da quanti, ad esempio, sono sulla scia di chi vedeva – non senza ragione – l’astrattezza degli studi come veicolo di discriminazione verso le classi sociali meno fortunate (per tutti l’esempio di Don Lorenzo Milani, che polemizzava con una scuola senza vita, custode «del lucignolo spento»). Da genitori che, preoccupati dei tassi di disoccupazione, vorrebbero che la scuola fornisse ai figli una preparazione fortemente orientata sul lavoro, carica di competenze tecniche e di un bagaglio che consenta loro di partecipare alla “feroce competizione della vita”. Da quanti sono preoccupati per lo sbiadirsi dei principi fondanti la nostra costituzione e lo vedono – anche qui non senza ragione – come conseguenza dell’ignoranza dei fatti e dei valori che hanno presieduto alla sua nascita e dovrebbero sostanziare il nostro senso civico. Il loro antesignano è certamente Piero Calamandrei: «I ragazzi delle scuole imparano chi fu Muzio Scevola o Orazio Coclite, ma non sanno chi furono i fratelli Cervi» e i tanti altri protagonisti della Resistenza[1]. (Non sarebbe certo di consolazione, per lui, constatare oggi che molti ragazzi non sanno nulla neanche di Orazio Coclite, oltre che della Resistenza). I pronunciamenti più convinti vengono dal mondo delle imprese le quali, comprensibilmente date le ragioni della propria esistenza, identificano la vita con il lavoro e, perciò, reclamano che la scuola sia legato ad esso.