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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

LO SPAZIO CHE PARLA

CITTÀ DISORDINATELa deriva sociale caratterizzata da aggressività o noncuranza è frutto anche di scellerate scelte urbanistiche che brutalizzano il rapporto uomo-ambiente. Occorre contrastare la logica del formicaio.

 

SPEDICATO

In un passo delle Satire il poeta latino Giovenale lamenta il disagio del suo universo percettivo causato dal sovraccarico di stimoli fisici e sociali (suoni, luci, rumori, folla) nella Roma imperiale del suo tempo. Riferisce di fiumi di persone che si accalcano disordinatamente le une sulle altre, alzano fango e polvere, sgomitano, FIRMA SPEDICATOurtano, calpestano senza riguardo chi ha la sventura di incrociare il loro cammino, trasportano oggetti in modo incauto (si può ricevere in testa un colpo di trave o di barile): insomma, evidenzia la propria insofferenza per l’eccesso di stimoli che stringono l’individuo in una sorta di perseverante assedio percettivo. Le note di Giovenale sembrano anticipare la scena di certe città-formicaio della contemporaneità: iper-sonore, iper-stimolanti, iper-affollate, segnate da frastuono e disordine diffuso e permanente. Non è dato sapere se e come Giovenale abbia (o avrebbe) replicato a chi “lo avesse urtato col gomito” o a chi gli “avesse sbattuto in testa un asse” o a chi “lo avesse schiacciato con un piede”, sappiamo però, e con certezza, che l’attuale configurazione di certi spazi urbani (e soprattutto metropolitani) moltiplica le forme di ostilità intra-specifica, promuove intricate ragnatele di insofferenza, accentua l’espressione di spinte intolleranti, abitua al degrado comportamentale, indebolisce l’azione delle prassi che presidiano i confini della vita civile,  alimenta indifferentemente sia la violenza che l’indifferenza.
Almeno una volta nel quotidiano, a ciascuno di noi è capitato di registrare comportamenti individuali e/o micro-collettivi caratterizzati da vistosa e impropria aggressività o accidiosa noncuranza: per esempio, alla trasformazione di miti condòmini in irruenti mister Hyde per motivi facilmente risolvibili; oppure a una rissa che viene  diligentemente “postata” nel portatile di casuali passanti ma non attiva alcun intervento per sedarla (neppure una telefonata alle Forze dell’Ordine), o a persone aggredite in strada che non suscitano alcuna reazione di aiuto quasi si stesse assistendo alla scena di un film con attori e spettatori separati da uno schermo.
 Questi atteggiamenti sono figli di topografie sociali anemiche, irresponsabili, privatisticamente ripiegate in se stesse e insieme di codici comportamentali lontanissimi da qualsivoglia espressione di responsabilità morale, ma sono anche figli di quel disordine spaziale che brutalizza il MUNCHrapporto uomo-ambiente a favore di esigenze particolaristiche e di accaparramenti privati. Penso qui alle scellerate scelte urbanistiche che hanno prodotto falansteri criminogeni e alienanti, alle tante periferie distopiche e ai quartieri sconci e invivibili di molte nostre città senza giardini pubblici, marciapiedi, viali pedonali, ma penso soprattutto a quel pensiero snaturato che, riducendo la natura a calcolo e manipolazione strumentale, causa (e ha causato) accanto allo sperpero e al saccheggio ambientali anche la destrutturazione delle coscienze.
Lo spazio, infatti, costituisce un fattore primario di benessere e/o di malessere che, tuttavia, non sembra godere di riguardo nella contemporaneità, sebbene disponga di un linguaggio chiaramente decifrabile. Umberto Eco nella introduzione al testo di Edward T. Hall, La dimensione nascosta segnalava che lo spazio parla anche quando non lo si vuole ascoltare. Parla «per precise convenzioni culturali, ma parla anche in base a profondi radicamenti biologici […] così che l’ignoranza del linguaggio spaziale può portare l’uomo (dai rapporti individuali alle grandi decisioni collettive) alla propria distruzione» (p.VI). Ovvero, e detto altrimenti, al linguaggio dello spazio si deve (si dovrebbe) particolare attenzione: vuoi per comprendere le contraddizioni e i disagi che segnano il quotidiano sociale; vuoi per promuovere decisioni operative, interpersonali, comunitarie, politiche diverse da quelle che hanno strattonato (e continuano a strattonare) numerosi ambienti urbani e non.

Sebbene molto tempo sia passato da queste considerazioni (risalgono al 1991, ma il testo di Hall è stato pubblicato nel 1966) la consapevolezza che le relazioni sociali siano condizionate, fortemente condizionate, dal fattore spaziale non pare costituire patrimonio condiviso. Se fosse diversamente, ciascuno sarebbe consapevole del fatto che il proprio rapporto con gli altri travalica le parole e i gesti, che la territorialità non è un concetto astruso (ce lo insegna l’etologia), che il sovraffollamento viene vissuto in maniera diversa a seconda delle situazioni e degli apprendimenti individuali. Ossia, può registrare prassi abituate al timbro del sovraccarico urbano; può produrre atteggiamenti prepotenti e aggressivi, come poc’anzi accennato; può incoraggiare prassi distratte e dimissionarie che sigillano ogni apertura al confronto con situazioni o circostanze che si è incapaci di gestire. Al momento, l’atteggiamento più seguito sembra essere precisamente questo: mascherarsi d’indifferenza.
Questa scelta, tuttavia, non tiene conto dei rischi che possono derivarne: il primo dei quali è dare il «la» a una deriva contagiosa della vita sociale, promuovendo legioni di sonnambuli noncuranti di ciò che accade loro intorno. Il che è l’esatto contrario di cui avrebbe bisogno al momento la nostra contemporaneità.  Infatti, quanto più il mondo si rimpicciolisce, le distanze si riducono e il contatto interumano si fa costante, tanto più dovrebbero crescere le forme di interazione corretta, proficua, feconda, produttiva. Va da sé: è difficile riconoscersi in una folla di estranei i cui interessi e le cui attività sono diverse dalle nostre o far convivere senza inciampi persone di diversa provenienza culturale, storica, occupazionale (questi elementi mettono a dura prova le capacita adattative della mente umana di rispondere adeguatamente a realtà e a spazi sociali mutati), ma un qualche tentativo di gestione se non di soluzione della questione andrebbe approntata. Il rischio, altrimenti, è quello di favorire situazioni di disordine/ostilità permanenti o confortare atteggiamenti individuali e micro-collettivi noncuranti, apatici, distratti da un ingorgo di segni e di rumori. Questa seconda modalità, che si riscontra soprattutto nei grandi agglomerati urbani e metropolitani, spiega perché chi vive in tali ambienti è meno affabile e meno interessato agli altri di chi vive in realtà urbane più circoscritte.
Quanto concisamente tratteggiato segnala che trascurare l’importanza del linguaggio spaziale potrebbe moltiplicare le già tante deteriorate espressioni della socialità e rendere “normali” le sue versioni patologiche. La logica del formicaio, in cui stiamo collettivamente e vertiginosamente scivolando, certifica (che lo si voglia o no) una malattia grave del nostro presente o, meglio, rappresenta un’anomalia pericolosa che domanda terapie scrupolose e competenti, a meno che non si pensi insensatamente che l’umanità possa adattarsi senza danno al modello di spazi brulicanti, affannati, scollati, asociali in cui si può abitare con fatica ma in cui certo non si vive.

 

La fiìoto della città e quella di Sera sulla cia Karl Johan di Edvard Munch risultano di pubblico dominio.

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