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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

LA CULTURA NEL PIATTO

SPEDICATONel cibo confluiscono molti significati, legati all’immaginario, alle distanze di classe, alle ideologie, a stili di vita, alle innovazioni tecnologiche. Un “luogo della libertà” non esente da rischi e pericoli.

 

Nella mappa degli indicatori sociali –ossia i dati che colgono il significato funzionale e generalizzabile di una qualsivoglia società- dovrebbe figurare anche l’alimentazione per la sua funzione di strumento conoscitivo e valutativo di abitudini, codici sociali, espressioni identitarie. Il cibo, infatti, rinvia a un denso labirinto di significati che superano il perimetro esclusivo del gusto e del commestibile e si aprono alle dimensioni immaginaria, simbolica, FIRMA SPEDICATOsociale, comunicativa. Per esempio, può stabilire divieti, definire regole, fertilizzare miti, segnalare esperienze mistiche, entrare nella dimensione del “sacro”[1]. Può documentare gerarchie, ideologie, gesti ostentatori, distanze di classe[2]. Può certificare forme di penitenza e di ascetismo: si pensi, al proposito, ai regimi rigidissimi, alle ipnotiche sonnolenze, all’astensione volontaria da ogni sollecitazione Mangiatori di patatedel palato, all’auto-inedia degli anacoreti, delle sante anoressiche, degli uomini più vicini a Dio. Insomma, nel mangiare (l’atto in apparenza più semplice, materiale, fisiologico) confluiscono norme, valori, linguaggi che inscrivono in un luogo sociale saturo di parole, metafore, prescrizioni esplicite ed evidenze implicite costruite da una cultura, una società, un’epoca. Ovvero, e detto in modo molto sintetico, “l’uomo è ciò che mangia” per dirla con Feuerbach che, in pieno positivismo, sottolineava la corrispondenza fra lo stile alimentare e il modo di concepire la vita.
Dunque: perché mangiamo quel che mangiamo? Se ci attenessimo al comune buon senso, risponderemmo che certi cibi si mangiano perché sono a disposizione, perché il loro gusto è buono, perché li richiede la saggezza del corpo. Ciascuna di queste risposte poggia su argomenti solidi ma non sufficienti a penetrare il significato profondo della domanda posta. Per esempio, non chiariscono perché alcuni alimenti, come il peperoncino, sebbene non siano naturalmente gradevoli al palato, sono tuttavia molto diffusi. Il buon senso, pertanto, non è in grado di rispondere a questa domanda, l’antropologia invece può farlo, precisando che non tutto ciò che si può biologicamente mangiare è culturalmente approvato, condiviso, in armonia con il sistema culturale nel quale ci si riconosce. Per esempio: se nella dieta dell’Occidente non figurano insetti, roditori, volpi, tassi, furetti, cani o gatti, la questione non dipende dalla circostanza che non si dispone di risorse in questo campo e neppure per motivi tossicologici o fisiologici quanto dal fatto che non tutto ciò che è biologicamente commestibile è culturalmente anche tale.
La regola indispensabile perché si possa incorporare un alimento poggia sulla distanza ottimale fra colui che mangia e ciò che mangia. Al riguardo, non va dimenticato che l’atto del mangiare è il più intimo fra gli atti dell’uomo e il cibo incorporato ne diventa l’intima sostanza. Questo spiega perché, almeno alle nostre latitudini, una vicinanza eccessiva al pari di una distanza eccessiva rendono impossibile il consumo di certi alimenti. Nel primo caso perché si evocherebbero espressioni di cannibalismo, nel secondo perché incorporando, ad esempio, le carni di un animale ripugnante si comunicherebbe questo suo carattere a chi se ne ciba. Insomma, per essere mangiato un alimento deve essere prioritariamente “buono da pensare”. Le dejeneur des canotiersDunque, a dispetto del fatto che l’uomo sia un onnivoro, i principi culturali della familiarità o della distanza, cristallizzati nell’immaginario collettivo, governano ancora (torno a ripeterlo, almeno alle nostre latitudini) le categorie del commestibile e del non commestibile.
Ovviamente, cosa ci riserverà il futuro su questo tema non è dato al momento prevedere con certezza. Con certezza, al momento, si può asserire che l’innovazione tecnologica sul versante della produzione e conservazione degli alimenti e l’affermazione di codici alimentari standardizzati e omologanti hanno fortemente debilitato gli elementi stabili e costanti di quella cultura alimentare che, almeno nel nostro Paese, allacciando gli alfabeti commestibili alla propria storia culturale, tutelava il nesso “sapore/sapere”.
Lo prova, per esempio, la marginalizzazione dei cibi segnalatori delle occasioni rituali (i cosiddetti piatti-totem delle solennità calendariali che davano voce a cosmi sacri e profani e veicolavano caratteri di specificità e diversità alimentari); lo conferma la scomparsa dei piatti “pensati” per ossequiare il calendario della natura (una stagione per ogni frutto, un piatto per ogni stagione); lo ribadisce la perdita della disciplina della tavola razionalmente dosata e didascalicamente geometrica (un menù diverso per ogni giorno della settimana: un giorno per la carne, un altro per il pesce, un altro per le minestre, un altro per la pastasciutta, un altro per i legumi, un altro per le verdure). E ancora: lo testimonia il grado di autonomia, tolleranza, flessibilità nelle scelte alimentari secondo l’orientamento gastro-anomico (senza norme) e l’esperanto di proposte alimentari che superano usi e consuetudini di ambienti, di età, di classe (si rifletta sull’uso di cibi che mescolano il dolce al salato, il caldo al freddo, la coca-cola all’hamburger, il succo di frutto alla pizza)[3].
Quanto accennato non significa, ovviamente, farsi paladini di costanti gastronomiche immutabili e incontaminate, peraltro impensabili e improponibili (la cucina è per definizione il luogo della libertà e di gusti continuamente reinventati), quanto invitare a porre attenzione ad almeno due fattori critici dell’oggi. Innanzitutto, l’omologazione degli alimenti messa in atto dalle multinazionali del cibo, della ristorazione industriale e della grande distribuzione che rischia non solo di compromettere le bio-diversità di interi territori ma, in sovrappiù, di aprire la strada a misteriosi artefatti alimentari senza origine conosciuta (Claude Fischler si serve maliziosamente dell’acronimo “ocni” per definirli, ossia oggetti commestibili non identificati). E, in secondo luogo, la perdita progressiva della frontiera dell’immaginario e del significato simbolico di ciò che si mangia.
A proposito di quest’ultimo punto, va ribadito che un mangiare privo di mitologia equivale a un puro nutrirsi: sicché potrebbe verificarsi che il massimo della civilizzazione rischi di identificarsi con il massimo della penuria selvaggia quando il sistema cosmogonico era ancora di là da venire. Va da sé che un’evenienza del genere costituirebbe un danno inestimabile per l’umanità tutta, perché in questo caso si verrebbe a perdere insieme con il sapore anche il sapere di quello che siamo. Ovvero si ridurrebbe al silenzio quello stravagante miscuglio di naturalità fisiologica e di simbolicità culturale che è l’Uomo e si aprirebbe la porta a realtà sociali tanto smemoratamente omologate quanto affatturate di inconsapevolezze e di ossessioni.

[1] Vale ricordare che i momenti più profondi della predicazione di Gesù si sviluppano in occasione di un banchetto. E. Menichelli, “Dio e cibo”, in Aa.Vv., Il cibo. Aspetti etici, nutrizionali, tradizionali in Abruzzo, 1996.
[2]Si rifletta sui significati ideologici e sociali che veicola una mensa a base di ostriche, caviale, aragoste a fronte di una allestita con polenta, fagioli o cavolfiore.
[3] C. Fischler, L’onnivoro. Il piacere di mangiare nella storia e nella scienza, 1999.

 

Nelle foto:
- Van Gogh, I mangiatori di patate (1885)
- Pierre-Auguste Renoir, Le déjeuner des canotiers, (1880-1881)

 

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