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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

FUORI MISURA

CIARLATANO 2L'affermazione dell'apparenza e della vacuità, il rifiuto della complessità e l'ostilità verso la cultura rendono patologico il culto dell’ “io”. Ma, a partire dal pensiero attivo e meditante, esistono ancora gli antidoti a questa deriva.


di EIDE SPEDICATO IENGO

 

 

Quando il processo di omologazione scorrazza indisturbato a irreggimentare esistenze, menti, saperi, cresce nello spazio sociale l’ospitalità per il degrado conoscitivo, la piattezza intellettuale, l’insipienza esistenziale. Ovvero, e detto altrimenti, il corpo sociale diventa fertile vivaio per l’ascesa di un nuovo soggetto sociale, il post-umano, che si impone con rumorosa disinvoltura sulla scena collettiva. Prodotto finale di quel progetto sociale illiberale che ha per obiettivo l’appiattimento e il livellamento delle individualità in un unico denominatore di bisogni, di consumi, di prassi, di stili di vita, il post-umano si nutre sostanzialmente di apparenze e vacuità; rifiuta la complessità; ha in dispetto la cultura intesa nella sua accezione più ampia; non pratica il garbo, lo stile, la riflessività; elegge la Rete a strumento primario di conoscenza; ama la chiacchiera incontinente e la società-spettacolo; considera il prossimo come un suo pubblico e, ovviamente, coglie ogni occasione per mettersi in mostra.
Ma non solo. Aggirando con disinvoltura il sistema normativo, questo nuovo soggetto sociale si mostra specificamente edotto sui propri diritti quanto confuso su quelli degli altri: non per caso, è un tenace sostenitore del pronome “io”. Ma di un io sbilanciato, asimmetrico, accuratamente attento alla cura del proprio particolare quanto disattento a quello degli altrui, come afferma a ragione Franco Cassano[1]. Non essendo abituato a pensare in proprio, manca di spirito critico e di senso estetico, si confronta solo con i suoi simili, ascolta solo i suoi profeti ed è orientato verso ogni sorta «di surrogati, siano essi di pensiero o arte, sostenuti dall’ipocrisia capziosa di chi dice che cambiano i tempi e cambiano i gusti»[2]. É vero: i tempi cambiano, ma il cambiamento non significa contrapporre l’essere al divenire; accettare anche il disvalore dell’inconsistenza, aderendo in modo acritico all’invito dei cantori dello spirito del tempo; guardare con sufficienza (quasi fosse una patetica, nostalgica espressione del passato) chi -commentando del presente le pesanti zone d’ombra- esprime dubbi sull’orientamento di una società sempre più frammentaria, instabile, fluida, traballante. Al contrario: proprio il mutamento nel quale siamo coinvolti e il sempre più affollato, fluttuante, rissoso mondo del presente dovrebbero indurre vuoi alla correzione di ciò che nella contemporaneità produce patologia, vuoi all’esercizio del pensiero attivo e meditante e dei suoi fratelli e sorelle (la riflessività, la sensibilità, l’autodisciplina, la coerenza, la responsabilità, l’equilibrio) contro quello “a nolo”, d’accatto, passivo, ripetuto, impersonale.
Tuttavia tale operazione riflessiva appare piuttosto lontana dal costume del soggetto post-umano. Ciascuno può averne la riprova interrogando la propria esperienza quotidiana. Per esempio, può succedere che ad una cerimonia pubblica, in cui è d’obbligo il rispetto del protocollo (anche nell’abbigliamento), il post-umano non si faccia scrupolo di presentarsi in bermuda, adducendo a pretesto la calura della giornata estiva. Oppure, che in un dibattito pubblico a più voci, il primo relatore indugi in verbose lungaggini e nell’esposizione compiaciuta di sé, sequestrando la platea e riducendo gli altri al ruolo di sbiadite comparse. Oppure che, nella presentazione di un libro, il post-umano, cui è stato affidato il ruolo di introdurlo, insista pedantemente nella sua interpretazione del testo e non mostri che scarso riguardo al suo autore quasi fosse un fastidioso passante capitato lì per caso. Oppure ancora può succedere che l’esibizione pubblica di un coro di scolari offra l’occasione a ingombranti presentatori per parlare di sé, mettendo metaforicamente il bavaglio ai veri protagonisti della manifestazione e relegando nonni e genitori (convenuti per ascoltare i loro bambini) alla funzione di ascoltatori involontari di vaniloqui e memorie personali.
Lo stile, il riguardo verso il prossimo, il ragionamento corretto, la comunicazione pertinente non sembrano, dunque, appartenere al bagaglio esistenziale di questi invadenti, contagiosi attori sociali che qualcuno potrebbe etichettare semplicemente come “male-educati”. Ma tale valutazione, a mio avviso, suonerebbe riduttiva. Penso, piuttosto, che costoro siano il cattivo prodotto di un cattivo quanto asfittico modello sociale che non solo ha aperto la porta all’insignificanza, al pressappochismo, alla pochezza culturale e comportamentale ma, in aggiunta, ha corrotto profondamente il ruolo e il significato della parola. Il rischio che questa diventi solo rumore e si trasformi in agente fortemente inquinante è più reale di quanto si supponga. A provarlo, come appena accennato, è l’attuale scenario comunicativo che, in pochi decenni, ha confuso e viziato il quadro delle sensibilità, dei percorsi formativi, dei legami simbolici vuoi rendendo sempre più gracile il concetto “ritualistico” del comunicare come interazione, comprensione, coerenza, allestimento della realtà; vuoi arginando in uno spazio silente il concetto della “parola” come forza logica e significante.
Che fare per contrastare questa tendenza che raccoglie consensi sempre più numerosi? Come difendersi da questo “rumore del mondo”?  Una terapia potrebbe essere quella di affidarsi all’uso del modesto, accessibile buon senso che, appunto, significa espressione della mente equilibrata che si impegna a stabilire, peraltro precariamente, quale sia il giusto valore delle cose e, parallelamente, di promuoverne la pratica[3]. Dal buon senso possono (potrebbero) derivare, infatti, suggerimenti utili a correggere alcune e ricorrenti malsane prassi dell’oggi: in particolare, quella che mi sento di definire la matrice di numerose altre, ossia la disabitudine a riflettere prima di parlare e di agire. Il che non sarebbe poca cosa nella fase di decrescita storica, in tutti i sensi, in cui drammaticamente versiamo.

[1] Modernizzare stanca, il Mulino, 2001, p. 140.
[2] M. Cucchi, Ma chi pensa a salvare i post-umani?, in Avvenire, 5 novembre 2019.
[3] R. Cantoni, La vita quotidiana, Mondadori, 1955, p.88.

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