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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

DISONORATA SOCIETÀ

IENGOIl concetto di onore, pur con significato e valore diversi nei tempi e nei contesti, ha disciplinato per secoli la vita privata e pubblica di popoli e civiltà. Oggi viene messo ai margini dai piazzisti della popolarità.

                 

                      di EIDE SPEDICATO IENGO

 

 

Le parole costituiscono uno strumento fondamentale per conoscere l’eredità storica, le pratiche sociali, l’impianto ideologico di una società. Dando forma alla realtà secondo significati definiti convenzionalmente, avvicinano alle tonalità e agli umori del pensiero sociale, rivelano la sensibilità e il carattere di ambienti individuali e collettivi e, ovviamente, denunciano anche le tensioni, le fratture, le derive di un’epoca. Nel tempo, alcune parole degenerano e si svuotano del significato originario e altre, invece, accompagnano nell’area di nuovi orientamenti valoriali e di costume; alcune segnalano dinamismi e accelerazioni trasformative e altre inerzie e logiche sacrali; alcune si semplificano e altre diventano più complesse; alcune soffrono di afasia e altre, pur se costantemente pronunciate, denunciano spazi di assenza; alcune si trasformano in parole-nomadi perché non trovano più approdi garantiti nella realtà e altre ancora appaiono retoriche, noiose, screditate, polverose, da accantonare negli archivi del passato. La parola “onore” è fra queste.
Va da sé: tale affermazione non significa asserire che questo vocabolo sia stato cancellato dal vocabolario o espunto dal linguaggio corrente: tutt’altro. Non per caso si ricorre ancora a locuzioni come “farsi onore”, “perdere l’onore”, “ferire nell’onore”, “attentare all’onore”, “è in gioco l’onore”, “tenere qualcosa o qualcuno in onore”, o a frasi di uso comune come “fare gli onori di casa”, “fare onore ad un pranzo”, oppure “ospiti d’onore”, “palco, picchetto, scorta, parata d’onore”, “l’onore della vittoria”, “piazza d’onore”[1]
Ciò che intendo dire è che si è perso è il concetto di onore come risorsa simbolica, precetto morale nell’agire pubblico e privato, regola della civile convivenza, lealtà, rettitudine, buona reputazione, rispetto di sé, strumento di coesione sociale. In tale accezione, l’onore dispone oggi di rari e radi testimoni diversamente dal passato quando, ad esempio, una stretta di mano legittimava accordi tra le parti, allacciava in solidi impegni da rispettare, richiamava all’importanza della responsabilità individuale. Allora, nella reciprocità della trasparenza, l’etica nelle relazioni aveva ancora un forte peso e il venir meno alla parola data equivaleva perdere, appunto, l’onore, scivolare nel disonore, macchiarsi di uno stigma indelebile.
Ma oggi cosa resta di questo costrutto simbolico che, per secoli, ha disciplinato la vita privata e pubblica di popoli e civiltà?[2] E, soprattutto, dispone ancora di un qualche significato negli attuali scenari sociali in cui gode di corsie preferenziali l’incostante, infedele, autoreferenziale versipelle, sempre disponibile per investimenti e ritirate, scansamenti ed effimere lealtà?
Prima di entrare in qualche elemento di dettaglio, va comunque almeno accennato alle gradazioni concettuali di questa parola. A quanto riportano i vocabolari la voce onore si dispiega all’interno di un ampio ventaglio di sfumature e toni di significato. In senso generale indica dignità personale, merito, prestigio, diritto al rispetto altrui. Designa, dunque, una virtù individuale che trova la propria conferma nel riconoscimento pubblico o, meglio, registra una risorsa valoriale che ha senso se viene riconosciuta[3]. Tuttavia la relazione tra l’onore come virtù del singolo e quello esterno tributato dal gruppo non è automatica e lineare. Per esempio, i membri del nostro Parlamento sono chiamati onorevoli «perché si riconosce loro l’appartenenza ad una minoranza scelta di servitori dello Stato, idealmente motivati dal senso dell’onore e riconoscibili da una condotta esemplare, ma il potersi fregiare di tale appellativo non implica che esso sia stato meritato, o che tale virtù sia riconosciuta importante dai singoli parlamentari»[4], o su cui conviene l’opinione della collettività.
Nel caso appena menzionato l’onore si trasforma in un’attribuzione, ovvero segnala una qualifica legata all’assunzione di un ruolo che, come la cronaca spesso registra, non sembra richiedere obbligatoriamente particolari doti e qualità morali. Il che, com’è intuitivo, è cosa ben diversa dal significato dell’onore come conferimento, riconoscimento per meriti conseguiti o caratteristiche personali fuori del comune[5]; o dall’onore come espressione di rispetto e di stima in cui si tiene qualcuno per i suoi pregi o la irreprensibilità del suo comportamento; o dall’onore come godimento di uno status, comunque e in ogni caso, privilegiato come nell’aristocrazia dell’ancien régime; oppure, assai più prosaicamente, dall’onore come qualità etica che orienta ad agire correttamente a prescindere dalla considerazione altrui; o, infine, dall’onore quale precetto morale e collante di organizzazioni e sodalizi in cui l’identificazione dell’individuo con il proprio gruppo di appartenenza è eletta a cardine della vita sociale, come avviene nelle cosiddette “culture della faccia” o nelle “culture dell’onore”.
Dunque, questo termine -il cui significato varia a seconda del contenuto che esprime e degli ambienti in cui si esprime- si presta a declinazioni plurali e a schemi comportamentali anche di segno marcatamente oppositivo. Si rifletta, al proposito, agli ideali del codice cavalleresco medioevale o nell’antico Giappone alla norma valoriale del seppuku (il suicidio rituale) dei samurai e, per contrappunto, alle distorsioni e alle degenerazioni dell’onore nelle cosiddette onorate società (quali ad esempio la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta, la yakuza giapponese, le triadi cinesi). In tali contesti, in cui si entra non in veste di soci, iscritti, componenti (come avviene in una qualsivoglia associazione, circolo, club), ma di “fratelli”, quasi si condividessero vincoli di sangue, è sull’onore che poggia l’indiscusso sentimento di lealtà, devozione, rispetto dei codici della famiglia sociale di cui si è parte e da cui non è consentito deviare. I legami di sangue, infatti, «non si negoziano, non si mercanteggiano, non si tradiscono, ma ci si impegna a salvaguardarli, se si vuole diventare uomini d’onore»[6]. Il venir meno al giuramento prestato comporta lo stigma del disonore e il discredito vuoi per sé, vuoi per il proprio gruppo familiare anche nei suoi rami più lontani e giustifica (come peraltro non di rado avviene) anche l’omicidio di chi tradisce il patto di fedeltà sottoscritto[7].
Tale distorta lettura dell’onore, tipica delle culture collettivistiche (in cui il sé pubblico viene vissuto in veste di bene inalienabile che a nessuno è dato compromettere) dispone anche di ulteriori modalità espressive, meno vistose e normate di quelle che targano le prassi delle onorate società di cui si è appena detto. In nome dell’onore (un onore, ripeto, svuotato di significato e usato come strumento perverso per giustificare azioni riprovevoli[8]) sono stati compiuti (e tuttora si compiono) violenze, brutalità, soprusi, omicidi. Si pensi, in passato, all’infanticidio commesso per rimuovere il motivo del disonore familiare e la prova della colpa della donna; oppure al delitto d’onore che, a lungo ritenuto in Italia una espressione di reato “minore” (fu abrogato solo nel 1981) puniva l’infedeltà coniugale; o nell’oggi si rifletta sulle vittime della violenza di genere su cui la cronaca aggiorna quasi ogni giorno. Cosa motiva il femminicidio se non la permanenza del significato simbolico di una onorabilità maschile compromessa dall’esigenza di autonomia e libertà femminili?[9]
Nei contesti individualizzati delle società complesse in cui si dispone di maggiori risorse, a fronte del passato, per percepirsi e agire come soggetti autonomi d’azione, l’onore può sia diventare una qualità individuale acquisibile da chiunque, purché lo si voglia (l’onore non richiede atti di coraggio: anche fare bene il proprio lavoro per sé, per chi ne beneficia e per la propria categoria professionale è un fatto onorevole) [10]; sia trasformarsi in una parola morta, da espungere dal vocabolario ideale e comportamentale. Questa seconda modalità sembra al momento la più praticata. Praticata, e colpevolmente veicolata, in particolare da chi, al contrario, dovrebbe eleggere questo precetto morale a elemento essenziale del proprio modus agendi. Mi riferisco qui al mondo della politica e, in particolare, a due spregiudicate tipologie di politici: i piazzisti alla ricerca di popolarità e i chierici del potere, i quali hanno equamente e fraternamente contribuito a ridurre la politica ad uno spazio mercantile in cui abitano spudoratamente le tendenze autoassolutorie e l’indulgenza diffusa, per cui nessuno viene più giudicato o biasimato. Va da sé che tali prassi non solo non incoraggiano il cittadino comune alla cura delle norme della civile convivenza ma, in sovrappiù, lo assolvono dal pretendere un analogo comportamento da parte di coloro che lo rappresentano[11].
Sono soprattutto questi i motivi per i quali l’onore andrebbe sottratto alla vita grama di cui oggi soffre, come si diceva ad inizio di questa nota. Tale risorsa insegnerebbe infatti, e in primo luogo, a guardare oltre le nicchie del proprio particolare; educherebbe poi alla pratica universalistica della responsabilità e, non da ultimo, rappresenterebbe uno strumento di regolazione sociale perché costituirebbe un deterrente contro la diffusione delle prassi anomiche, dei comportamenti opportunistici, degli abusi. Se si riuscisse in questo intento, forse si potrebbe contenere la rassegnazione e la sfiducia nei confronti della politica, delle istituzioni, dello Stato di cui soffre una larga parte del nostro Paese e, parallelamente, promuovere quelle espressioni di moralità realistica, senso civico, riflessività sociale da tempo latitanti nelle coscienze e nelle prassi.   

[1] Nelle competizioni sportive la piazza d’onore è il secondo posto in ordine di arrivo.

[2] Cfr. F. Giardini, Che cosa resta dell’onore. Perché ne abbiamo ancora bisogno, il Mulino, Bologna, 2017.

[3] Idem, p.30.

[4] Idem, p.14.

[5] Si pensi al conferimento di premi per meriti particolari, come ad esempio il Nobel.

[6] F. Giardini, op. cit., p. 84.

[7] Per inciso: questa concezione limitata e degenerata dell’onore- costituendo l’unità di misura del valore di una persona e di una famiglia- richiede il possesso di particolari qualità e capacità di compiere precise azioni alle quali non deve far difetto il vocabolario dell’aggressività, della spregiudicatezza, della violenza, della vendetta, delle forme di giustizia privata. Cfr. sul tema P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, il Saggiatore, Milano, 2007 e nuovamente F. Giardini alle pp. 84-85           

[8] Cfr. F. Giardini, op. cit., p.65-70

[9] Dello stesso segno sono anche le uccisioni di quelle donne immigrate che aderendo ai costumi della società-ospite in opposizione ai dettati familiari compromettono l’onorabilità della famiglia. Questi omicidi perpetrati verso figlie o sorelle ad opera di padri o fratelli servono a ripristinare l’onorabilità perduta e il rispetto nella comunità. In contesti di diaspora il ruolo dell’onore diventa, infatti, ancora più importante per mantenere l’identità e il valore individuale e familiare. Giardini, op. cit., p. 102.  

[10] Idem, p.108

[11] F. Giardini, p. 110

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