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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

IL...MITICO MONDO DI DIANA

SCAFFALE LIBRI ANTICHILa storia di una donna colta e delicata, che faceva entrare ragazzi e ragazze nel magico mondo dei miti latini e greci. E, per converso, amava e studiava il dialetto, al quale dedicò uno scritto tristemente caduto nell’oblio. 

 

ANTONELLA IANNUCCI 1Sì accedeva alla sua camera, che fungeva anche da studio, dopo essere entrati in una solida casa borghese di inizio ‘900, situata in un'assolata piazzetta del centro ed aver salito una scalinata che, da un lato era scortata da una credenza da emporio alta fin quasi al soffitto (il padre, della nostra protagonista zi' Lisandre, aveva un negozio di alimentari che riforniva di biscotti e caramelle tutti i bambini del paese, che prendeva dai boccioni in vetro sul suo bancone). Essa conservava sulla sua sommità una imponente collezione di "Topolino", mentre, dall’altro lato della scalinata, troneggiava, nel periodo di Natale, uno splendido albero, con tante luci e festoni argentati e dorati  
FIRMA IANNUCCIUna volta varcata la soglia di quella camera, vi avrebbe accolto lei, Diana, una figura di donna davvero simile a quella del film del 2002 Il favoloso mondo di Amélie, il cui titolo mi è piaciuto omaggiare, ma di mezza età, un po’ grassottella, con un caschetto di capelli neri, i grandi occhi scuri, quasi mandorlati, sia pur dietro spessi occhiali da vista, o, come diceva lei... i, fanali, le camicette di pizzo da bambolina e le gonne scampanate anni ’50, nei colori pastello o fiorate, con ai piedi deliziose ballerine.
Attraverso di lei, io, insieme a molte generazioni di ragazzi e ragazze casalesi, entravamo nel magico mondo dei miti latini e greci, negli scrittori un po’ misteriosi di quelle due letterature ed in quelle lingue che si definiscono morte solo per l’uso parlato. Esse, invece, sono ricche di significati, di figure retoriche complesse, e di complicate, ma proprio per questo affascinanti, costruzioni grammaticali, nonché di simboli e di lettere divenuti tali nel corso dei secoli. Noi, però, tutto questo non lo capivamo o non lo volevamo capire, perché prendevamo quelle lezioni come un peso, o una punizione estiva di cui liberarci al più presto.
LU DECOTTEAnzi, in verità, personalmente, ci ero andata da studentessa universitaria perché volevo avvalermi della sua opera per acquisire le competenze minime nella lingua latina necessarie per superare un esame scritto di versione, dato che venivo da una scuola tecnica, ma lei, che aveva soprattutto studenti liceali come allievi, e non esattamente delle cime, mi prese subito in simpatia, forse per la mia volontà non comune di apprendere o forse, più semplicemente perché rivedeva se stessa in me, e così, alla fine delle nostre lezioni, il discorso finiva con il cadere puntualmente su di noi e si informava sul mio percorso di studi, sugli esami fatti e quelli ancora da fare, sulle materie del piano di studi e, più avanti, sulla tesi che avevo intenzione di chiedere, così come io ero incuriosita dalle sue vicissitudini di studiosa.
Mi raccontava così, ad esempio, di come nella sua tesi sul nostro dialetto ancora inedita, avesse dovuto aggiungere a mano le trascrizioni fonetiche del parlato con l’Alfabeto Fonetico Internazionale, perché il dattiloscritto non aveva i caratteri speciali richiesti, come magari avviene oggi con i computer.
In questo modo, quindi, venni anche a sapere come Diana, prima di tornare in paese e formare generazioni di casalesi, si fosse laureata in lettere classiche a Bologna con quella tesi sul nostro dialetto, forse l'unica direttamente in merito, e avesse fatto la bibliotecaria in quella città. Diana aveva poi lasciato quel lavoro stimolante, perché a contatto con i giovani, in quella Bologna così vivace culturalmente, per stare vicino alla madre molto anziana, ma quella dolorosa rinuncia sembrava non pesarle, o almeno non lo dava a vedere.
Doveva essere rimasta, invece, un po’ delusa da me quando, dopo poco più di un anno di lezioni, le annunciai, con la dovuta calma e tatto, di aver tentato e superato l’esame scritto di versione, e come, quindi, non mi sarei più recata a lezione. Alle sue rimostranze un po’ stupite, risposi che forse aveva ragione, ma che, essendo arrivata all’ultimo anno di corso ed avendo già chiesto la tesi di ricerca in Letteratura italiana, non avrei avuto più molto tempo da dedicare a quell’esame scritto, cosicché  appunto avevo tentato di superarlo con conseguente successo e in un modo che mi aveva dato anche una certa soddisfazione, visto che l’avevo dovuto dare per motivi logistici nell’Aula magna della Facoltà, dalla cattedra del professore e non insieme agli altri studenti. Quando sentì il modo in cui quell’esame si era svolto, capì pienamente le mie ragioni e se cessammo le nostre relazioni professionali, non accadde altrettanto per quelle umane che, anzi, si rafforzarono e arricchirono di stima reciproca. Non c'era festa in paese che non mi trovassi a passare sotto il suo balcone e ne approfittassi per salutarla, così come, puntualmente, lei mi mandasse una piantina o un mazzolino di fiori ad ogni compleanno.
Da parte mia, una volta laureata, non mancavo di farle avere una copia dei volumi che di volta in volta pubblicavo: ci tenevo alla sua opinione in merito, perché sapevo che era quella di persona competente e sincera, soprattutto quando si trattò dell’adattamento dialettale abruzzese della Mandragola che avevo tentato, da una parte per lasciare una traccia scritta di un’opera nel nostro vernacolo, anche se ero perfettamente cosciente di non poter usare l’alfabeto fonetico utilizzata per riprodurre i suoni dialettali, essendo un copione destinato alla recita e alla lettura, e dall’altra per CASALBORDINO DIANAdimostrare che il dialetto stesso era capace di supportare la ricchezza del vocabolario e della lingua in generale di un capolavoro teatrale. E il suo verdetto fu, con mia grande e positiva sorpresa, pienamente favorevole, perché mi disse di riconoscersi completamente nella forma dialettale usata e come corrispondesse pienamente al parlato da lei studiato. Ě inutile dire che ero orgogliosa di un tale giudizio, come anche di quello sulle mie poesie, quando gliene mandai la mia prima raccoltina illustrata.
Questo soddisfacente rapporto umano e, in qualche modo, da discepola andò avanti per oltre un decennio, fino a quando cominciai a notare che le persiane della sua casa rimanevano chiuse per periodi sempre più lunghi, anche nelle feste del paese, a cui Diana non mancava mai, in qualche modo, di partecipare, sia pure indirettamente, come quella dell’Ascensione, per la cui processione da noi è d’uso addobbare i balconi con le migliori coperte ricamate del proprio corredo in onore del Risorto, quasi fossero bandiere gloriose, e venni così a sapere che Diana, dopo aver smesso di impartire ripetizioni, era ormai anche andata a vivere con una sorella, perché non più in grado di stare da sola.
La rividi un’ultima volta in una Messa festiva del paese, sempre con uno dei suoi vestitini di pizzo e le sue ballerine, purtroppo ridotta un po’ male sul piano personale; nonostante ciò, pareva proprio che mi riconoscesse al caldo e affettuoso saluto che le rivolgevo e tentasse di dirmi chissà che cosa, anche se in quell’occasione la folla premeva per uscire e non potei trattenermi più di tanto, come mi sarebbe piaciuto.
Dopo qualche mese, seppi che era andata a raggiungere i suoi Campi Elisi, come i Greci chiamavano il nostro Paradiso, dove, chissà, avrebbe anche potuto incontrare i suoi Virgilio, Orazio, Cicerone, Eschilo, Sofocle, Euripide, persino quella Saffo così vituperata, oppure più semplicemente solo i suoi familiari; invece qui da noi la sua casa rimaneva tristemente chiusa, così come i suoi libri e quella collezione di “Topolino”, mentre quella tesi sul nostro dialetto, come altri suoi studi, desolatamente inedita.
In seguito alla sua dipartita, bisognava battersi affinché le fossero riconosciuti  i meriti che le spettavano, per essersi occupata con tanta passione della formazione dei nostri ragazzi e della promozione del nostro dialetto e non mi sono certo tirata indietro, chiedendo più volte una pubblica edizione del suo studio, ma evidentemente era troppo presto o, più semplicemente, non c’era ancora la cosiddetta “volontà politica”, senza contare che rischiavo anch’io di fare la stessa fine con i miei scritti.
Infatti, pure questi ultimi sarebbero stati condannati all’oblio se non avessi provveduto in tempo, senza illudersi di contare troppo sull’attestazione di chi ti   conosce meglio, ma che forse, appunto per questo, potrebbe essere vittima di un’inutile e dannosa invidia.
Ě proprio vero, come avrebbe sentenziato lei, nel suo latino, che non si può certo fare eccezione all’esperienza di Gesù, il quale ha già vissuto sulla Propria pelle questa situazione, constatando amaramente che... Nemo propheta in patria, ossia “nessuno è profeta nella sua terra”!!!

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