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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

IL PRIMO UOMO

Il film di Gianni Amelio su Camus, uomo di molte culture, differenti identità e appartenenze. Con un intreccio tra la biografia dello scrittore e l’autobiografia del regista. Due vite segnate dalla mediterraneità.


di NICOLA RANIERI

 

La radicale problematicità, l’incertezza di ogni umana intrapresa, l’ambiguità perfino del bene – ché spesso si converte nel suo contrario – sono alcuni NICOLARANIERI1dei temi dominanti delle opere di Albert Camus e degli esistenzialisti. Sebbene egli rifiuti di definirsi tale, ne Il mito di Sisifo fa di questo eroe mitologico il simbolo dell’assurdità dell’esistenza, sballottata sovente fra aspirazioni infinite e finite possibilità; sicché ogni sforzo si vanifica.
Eppure, in virtù di una simile consapevolezza, ne L’uomo in rivolta immagina un individuo capace di ergersi contro la sua stessa condizione, poiché la consapevolezza dell’assurdo non è detto che debba condurre necessariamente a una perpetua angoscia. Può invece aprire spiragli di libertà o di una autentica passione di vivere, pur sapendo che nulla ci sopravvivrà. Può far nascere una momentanea quanto abissale felicità, suscitata dalle “nozze con la terra”. Può indurre alla solidarietà fra gli esseri umani, come capita ad alcuni personaggi de La peste. Che scoprono ben altra dimensione: l’opposto del fatalismo e della violenza.
Si tratta però di rivolta individuale. Non della rivoluzione di classe, dato che questa (secondo Camus) spesso è foriera di una nuova forma di oppressione. In ciò sta, anche, la sua polemica con Jean-Paul Sartre soprattutto. Perché la pur necessaria solidarietà di classe non deve distruggere il singolo. Che non può venir sacrificato sull’altare della Storia, della Rivoluzione mondiale o della Religione universale.
L’idea de Luomo in rivolta non scaturisce, altresì, da una astratta concettualizzazione ma da un concretissimo impegno etico e politico. Tant’è che Camus, nonostante la grave malattia polmonare che lo accompagnò lungo il secondo ventennio della sua breve vita, divenne membro della Resistenza e, fino alla Liberazione, fu caporedattore del giornale clandestino Combat. A guerra finita, continuò l’attività giornalistica e l’impegno contro gli innumerevoli attentati alla umana dignità in ogni parte del mondo, attraverso nettissime prese di posizione da militante non irreggimentabile in una qualsiasi forma di assolutizzazione politica o filosofica. Per questo si attirò aspre critiche da sinistra e da destra. Proprio lui che rifiutava con intransigenza l’ipocrisia, l’inumanità, la distruttività della Storia, dovette subire l’onta di venir considerato come un ripiegato su se stesso. Proprio lui che nell’assurdo, nel vuoto e nel non-senso dell’esistere aveva intravisto una inusitata possibilità: la vita infatti, in quanto priva di senso, può risultare felice.
Appunto perché senza scopi da raggiungere, senza illusioni di eternità o di valori assoluti, può assomigliare a quella di un Sisifo felice. Che nega gli dèi, solleva macigni e intanto – nel ridiscendere dal monte – contempla quelle azioni compiute durante l’ascesa. E, pur sapendole fra di esse slegate, CAMUS LIBROgli appaiono tutte quante inscritte nel proprio destino. Ora, finalmente, accettato. Come lo accetta il protagonista de Lo straniero che in carcere – dopo aver mandato via anche il prete confessore – aspetta l’esecuzione della condanna a morte. Del resto, siamo tutti condannati a morte sicura per il semplice fatto d’esser nati.

Quando nel 1960 morì in un incidente stradale, trovarono in macchina il romanzo autobiografico, ancora da ultimare. Il primo uomo, revisionato dalla figlia Catherine, venne pubblicato nel 1994. Ad esso si ispira liberamente Gianni Amelio per realizzare (nel 2011) l’omonimo film su Camus: uomo di molte culture, differenti identità e appartenenze. Perciò non catalogabile in nessuna.
Jacques Cormery (nella finzione letteraria e cinematografica) è il nome di questo “fuggitivo”, nomade fra diverse patrie e in cerca di un padre per lui sconosciuto. Del quale (nella scena iniziale) ritrova la tomba nel cimitero dei caduti della battaglia della Marna del 1914. Avendo allora meno di un anno, solo adesso può immaginare di dirgli: «Colui che scrive non sarà mai all’altezza di colui che muore». Non lo sarà mai, nemmeno se ha appena ricevuto il premio Nobel per la letteratura.

Siamo nel 1957. Cormery/Camus, ormai famoso, viene chiamato a tenere una conferenza nella Università di Algeri. Dove dichiara che: «Il destino di uno scrittore non è quello di mettersi al servizio di coloro che fanno la Storia, ma di quelli che la subiscono». Mentre studenti tumultuanti gridano: «Tornatene a casa tua, Cormery. Non abbiamo bisogno di gente come te».
Ai loro occhi, egli sembra solo un francese di successo. Invece, è un  algerino-francese di madre spagnola, di padre alsaziano. Insomma uno di tante patrie. E che vorrebbe vederle convivere in pace anziché schierate in fazioni avverse: l’una per rimanere legata alla Francia, l’altra per ottenere l’immediata indipendenza di una Algeria dilaniata dal sanguinoso conflitto tra il Fronte di Liberazione Nazionale e l’esercito francese. In questa realtà fatta di attentati e indicibili torture, egli torna a casa dalla vecchia madre. Nel quartiere povero di Belcourt – che lo ha visto bambino e adolescente – ricerca la memoria del padre, interrogando coloro che lo conobbero. Così, in un continuo alternarsi di passato e presente, cerca se stesso attraverso i ricordi altrui e suoi.

Il primo uomo non è Adamo. Ciascuno di noi lo è. Perché, essendo l’impasto di una memoria che si spinge indietro fino all’alba dei tempi, ognuno finisce per ricominciare sempre daccapo, come fosse il primo. Maschio o femmina che sia. Tant’è vero che la storia di Cormery/Camus sarebbe tutta un’altra vicenda senza la fondamentale presenza della madre e della nonna: due donne di carattere forte, e vissute in condizioni difficilissime. Le stesse che accomunano Albert Camus e Gianni Amelio.
Il quale ha il sospetto di essere stato scelto, come regista del film, proprio per il suo passato. Racconta, infatti, di aver conosciuto suo padre (emigrante) solo in tarda età, di essere stato cresciuto da una mamma e una nonna molto energiche. Di aver lavorato con uno zio e di aver frequentato la scuola media per l’aiuto del maestro delle elementari. Insomma non molto diversamente da ciò che raccontava di se stesso Camus e la di lui figlia Catherine. Alla quale queste coincidenze son sembrate talmente “miracolose” da lasciare dirigere la storia di suo padre con estrema libertà. Addirittura dicendo al regista: «Dimentichi Camus; parli di lei».

Ma non bastano solo le coincidenze per fare un film. Per raccontare l’esistenza di un altro bisogna farla propria. Senza travisarla però, senza servirsene per parlare solo di sé.
Amelio riscrive i dialoghi del libro, ritagliandoli dalle esperienze della propria famiglia. Che assumono, così, un valore non più solo autobiografico ma “universale”. Sicché, mentre dirige un’opera autobiografica, filma la biografia di una personalità forte come quella di Camus, dopo averne ritrascritto la autobiografia senza tradirla. Anzi, cogliendone il senso profondo.            
Lo coglie intimamente perché – considerando il bambino quale germoglio dell’uomo che diventerà – cerca nel piccolo Camus il piccolo Amelio, e viceversa, in maniera che l’uno parli attraverso l’altro. Accomunati come sono da vicende quasi del tutto simili, sia pure diverse per generazione. Segnati entrambi sin da piccoli dalla mediterraneità, benché nati su opposte sponde: calabrese e africana.
La grande baia di Algeri – la promessa del mare! – il sole, la luce intensa sulla città segnano profondamente infanzia e adolescenza di Camus. Tanto che da adulto scrive: «Il sole mi insegnò che la storia non è tutto»; «La miseria mi impedì di credere che tutto è bene sotto il sole».
Nasce da qui l’impegno contro ingiustizia e oppressione. Ma non l’illusione che tutto sia storico o storicamente risolvibile.
«Il Mediterraneo ha una sua tragicità che non è quella delle nebbie» – scrive ne L’estate.
Il sole e l’ombra (per non bruciarsi) sono i due opposti su cui i Greci hanno fondato la dialettica, simile a quella della vita stessa che in sé reca tutti i contrari. E Camus scorge la genesi del suo pensiero solare – o meridiano – proprio in questa tragica polarità. Che fa di lui uno sradicato e al contempo radicato in due poli opposti. Quindi incline alla dialettica: alla armonica convivenza fra diverse anime, sensibilità, culture, etnie differenti che non si annullano ma vicendevolmente si arricchiscono interagendo. Come da sempre avviene nel Nord Africa – tra Oriente e Occidente – e nell’intero Mediterraneo: crocevia di scontri-incontri, di vitalità che dal mare proviene non già dal deserto. Vitalità che, tra ombra e luce, sacro e ragione, dovrebbe cercare sempre l’equilibrio, la giusta misura affinché vi sia armonia tra forze contrarie.
In ciò sta la tragicità nostra: la estenuante esigenza di cercare la misura, il senso del nostro vivere nel con-vivere fra diversi; nell’essere liberi di scegliere anche le nostre catene. Come Sisifo che accetta il proprio destino. Che è cosa ben diversa dall’essere libertari, magari militanti in gruppi che tali si definiscono. Con costoro polemizza Camus. E pure con quello spirito europeo che, avendo assolutizzato lo strapotere razionalistico, ha ucciso ciò che da esso esorbita, producendo così la civiltà dell’oppressione o del libertarismo quale suo meccanico rovescio.

Amelio coglie il senso profondo della vita di Camus, partendo dalla di lui infanzia e dalla propria nella luce/ombra del Mediterraneo. Sbaglierebbe però chi apprezzasse la pregevole fotografia come qualità a sé stante nel film. La cui essenza risiede, invece, nel mirabile intreccio di forma e contenuto che ben figurano il pensiero meridiano o della interazione dialettica fra tutti gli opposti e non dello scontro fine a se stesso.

A differenza di Gillo Pontecorvo – che con La battaglia di Algeri (1966) documentava e celebrava la vittoria degli algerini, sostenendo la tesi (à la Sartre) «l’Algeria agli algerini» – Amelio, pur ambientando il suo film in un momento cruciale della guerra di liberazione dalla Francia, sposta l’accento sui conflitti etnici. E più in generale sulla convivenza fra diversi gruppi in uno stesso territorio, onde evitare che alla violenza degli uni si risponda con la violenza degli altri. Così parla di problemi anche attuali, mentre rimane fedele a Camus, che ha sempre creduto nella rivolta ma non nel terrorismo. Manifestando, tuttavia, una sincera vicinanza a chiunque combattesse contro l’ingiustizia.

Per chiarire sino in fondo il complesso pensiero dello scrittore e smascherare l’infondatezza delle accuse di ignavia rivoltegli dai suoi detrattori, il regista inventa personaggi che nel romanzo non esistono. Hamoud è un vero e proprio antagonista di Jacques Cormery. Quando erano compagni di scuola, si rifiutava di parlare in francese, girava le spalle alla lavagna, non voleva imparare la storia della Francia. Ora, pur nutrendo la stessa amicizia/inimicizia per Jacques e conservando tutta la fierezza di allora, gli chiede se può in qualche modo aiutare Aziz, il giovanissimo figlio terrorista condannato a morte. Cormery non solo va a incontrarlo in carcere ma chiede per lui, al governo francese, una grazia che purtroppo non ci sarà. Aziz verrà ghigliottinato. Subito dopo lo scrittore, parlando alla radio, ripeterà la sua celebre frase detta al momento del Nobel: «Tra la giustizia e mia madre, scelgo mia madre».
Ciò vuol dire – a scanso di possibili fraintendimenti – che se gli arabi per rabbia facessero male a una donna, che come loro soffre pene indicibili, starebbe dalla sua parte. Non a caso, quindi, il film è nel segno della madre. Da lei, infatti, Cormery/Camus ha appreso la dignità nella povertà, i modi semplici e i grandi gesti fieri, una vita fatta di doveri, di lavoro, di umiltà anche quando si diventa benestanti.
Lei è analfabeta. Del figlio sa scrivere a mala pena il nome e non può leggerne i libri. Siccome per non essergli di peso ha deciso di restare ad Algeri, dalla finestra lo vede andar via per sempre. Poi guarda la propria immagine di anziana riflessa nel vetro.

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