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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

«PER FORZA DI LEVARE»

PALLADINILa demolizione di edifici nelle città può corrispondere a disegni ed interessi diversi. Dall’idea di scultura espressa da Michelangelo, lo spunto per vedere la questione in termini nuovi, per riconquistare spazi urbani e contrastare degradi sociali.

 

 

RecenFIRMA PALLADINItemente mi sono imbattuto in una serie di demolizioni per edifici con varie credenziali storiche ma tutti significativi per la costruzione delle città; per contro, mi è capitato di desiderare ed a volte esplicitamente perorare la demolizione di altri, vistosamente in contrasto con i loro contesti urbani o paesistici.
Mi è venuto perciò da riflettere sul ruolo della demolizione nella costruzione della città. Essa ha accompagnato la incessante sostituzione edilizia che è alla base della sua trasformazione, sia come prodotto delle aspirazioni individuali che come complementare a grandi disegni urbani, dai tracciati della Roma imperiale a quelli voluti da Ercole d’Este o da Sisto V fino agli sventramenti del barone Haussmann e poi a quelli novecenteschi, per celebrare autoritarismi o per risanare agglomerati insani. Ma la demolizione non ha mai assunto un valore propositivo, fondante per il nuovo della città; il “diradamento edilizio” su cui Giovannoni nel 1913 fonda la sua teoria del restauro (in  contrapposizione agli sventramenti che accompagnavano la definizione della città moderna) è piuttosto una teoria difensiva, tesa a preservare brani di storia dal “piccone demolitore” e nello stesso tempo a raccogliere le istanze sociali espresse ad esempio, per Napoli, da Matilde Serao.
La città , insomma è fatta fino ad oggi di accrescimenti. Quando non si oppongono le calamità naturali o la decadenza portata da rivoli deviati della storia, gli abitanti incrementano i loro nuclei, costruiscono cinte murarie più ampie che circondano le precedenti includendovi altre aree; fino a quando il cambiamento delle tecniche di guerra, l’inurbamento della forza lavoro industriale e l’aumento della pressione speculativa quelle mura travolge determinando espansioni a macchia d’olio, potenzialmente infinite. Oggi, le deboli prescrizioni fissate sulle carte urbanistiche lasciano ormai campo ad una contrattazione continua, caso per caso tra i poteri MOLE ANTONELLIANApubblici ed i “promoters” dello sviluppo urbano.  Questa logica, nelle nuove città mondiali  dei Paesi emergenti che  non hanno conosciuto nemmeno la fase della città “ conclusa”, si esprime dando luogo ad una rappresentatività sempre più spesso affidata a grattacieli e grandi edifici proposti dallo star- system  della progettazione mondiale  spesso al fianco delle estese favelas che ospitano i ceti popolari.
Ancora per addizione, dunque, si esprime la città e questo riguarda sempre di più anche i centri europei che devono fronteggiare la nuova pressione, dopo le speculazioni degli anni sessanta/settanta,  di grandi edifici dalla immagine high-tech. Ogni città reagisce al suo modo: dalla grande disponibilità di Milano, che rinnova  con i suoi grattacieli di oggi la tradizionale ospitalità per edifici come il ”Pirellone” o la” Torre Velasca”; alle resistenze di Torino, che ha contestato anche la torre di Renzo Piano per Intesa-Sanpaolo ottenendo almeno che non superasse la Mole Antonelliana.
L’Europa sembra ormai espugnata, con Londra a fare da capofila per i nuovi giganti delle città; chi sa se il nuovo Re, paladino della tradizione quando era Principe, invertirà la tendenza.
La persistenza di questa spinta ad  incrementare l’attività edilizia trova anche una sponda in tendenze legislative (si pensi in Italia al “Decreto sviluppo” che consente aumenti indiscriminati di volume  fuori dalla pianificazione locale) e porta ad un recupero della  rendita di posizione, cioè di quel valore che la centralità attribuisce ad aree e fabbricati. Infatti le città, intanto, si sono fermate e producono poco valore nelle fasce marginali per tante ragioni: tra le prime il calo demografico, la ripresa dell’emigrazione giovanile dalle zone più svantaggiate e una drasticamente diminuita capacità di acquisto che, con la fine dell’edilizia pubblica, rappresenta l’unico motore della attività edilizia.
Le città, quindi, in questa parte del mondo si presentano come dei corpaccioni adagiati, la cui crescita si è fermata sull’ informe sfrangiatura delle periferie, fatte di ricoveri per gli esclusi, capannoni abbandonati o con usi precari, enclaves  di terreno agricolo abbandonato e gli aloni degradati delle infrastrutture di ogni tipo, per le utenze, la viabilità , le ferrovie. Ma su questi organismi si continuano ad innestare edifici alti, che si vorrebbero dei “ landmark” o capaci comunque di generare valore.
Invece la demolizione, in questa fase , assume a volte anche  evidenza pubblica ma  con una  particolare valenza: quella securitaria.
VELE SCAMPIAC’è stato il caso della demolizione  che ha riguardato le “ Vele” di Scampia a Napoli, iniziata vent’anni fa  e che continua, con la conservazione di una di esse per  destinarla ad uffici comunali e la realizzazione di una sede universitaria  al posto di un’altra. Vedremo come evolverà la storia di quel quartiere, tristemente noto per essere stato colonizzato dalla camorra; dobbiamo però ricordare che le sette vele realizzate tra il 1962 e il 1975 costituirono una importante risposta alla questione abitativa con un progetto sperimentale che prevedeva unità abitative ridotte per dimensioni ma molti spazi comuni per aiutare la socializzazione. L’idea era quella di dotare il complesso di numerosi servizi, asili, spazi giochi per bambini, centri sportivi e culturali, plessi scolastici. Al di là dei limiti intrinseci del progetto, va detto che nessuna delle attività previste fu realizzata e furono per anni tollerati abusivismo ed assegnazioni gestite dalla camorra. Insomma, decenni di incuria, di omissione dei servizi civili, di abbandono del campo alla camorra hanno portato alla identificazione delle mura stesse con il degrado ed il crimine. Con un enorme costo economico e sociale si è semplicemente rimosso il fenomeno; ma non sappiamo ancora niente sulla persistenza del problema.
 In scala minore, anche a Pescara ci si appresta a demolire uno stabile in cui abitano alcuni pregiudicati e spacciatori, offrendo all’opinione pubblica la soluzione più radicale ed eclatante (anche se la più costosa in soldi e risvolti sociali) ma, in fondo, la più elusiva.
Analoghe suggestioni si affacciano qua e là, da Roma a Palermo, in luoghi che il disagio ha reso noti; tarda invece il tentativo di portare lì un effetto- città, dotandoli di servizi, di polarità culturali attrattive o, più semplicemente, di tetti sotto cui non piove.
Allora si dovrebbe pensare a un ruolo diverso per la demolizione nella città contemporanea europea: non solo interno alle logiche della comunicazione, ma funzione della sua  configurazione: un ruolo inedito, se scorriamo le fasi che ho richiamato, ma adeguato a città nelle quali la maturità è stata raggiunta ed il tema principale  dell’amministratore e dell’urbanista è quello di dare senso all’esistente, di aggiustarne le relazioni tra le parti, di diminuire la sperequazione urbana.
Soccorre in tal senso una  frase di  Michelangelo Buonarroti in una lettera a messer Benedetto Varchi: «io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare…». Una definizione molto suggestiva: da una massa informe trarre la forma per sottrazione; a differenza della pittura, egli continua, in cui si aggiunge una pennellata all’altra fino a raggiungere l’esito. Con qualche libertà di traslazione credo che oggi questa idea della sottrazione si possa applicare al destino delle città come le vediamo. Possiamo valutarne la sky line, riconoscerne le parti a partire dai centri storici e dai quartieri dal disegno unitario, perimetrare le aree degradate, misurarne i detrattori ambientali. Rispetto a questo quadro che le definisce, alcuni volumi realizzati negli ultimi decenni appaiono incongrui e forzatamente inseriti nei loro contesti, trovandosi inoltre alla fine del loro ciclo come investimento; questo rende pensabile la loro demolizione, il loro trasferimento altrove, piegando a pubblica utilità alcuni dei meccanismi “compensativi” spesso tempestivamente attivati su iniziativa privata. Altrove, infatti, specie nelle zone degradate, un riequilibrio di densità, determinato da quei trasferimenti potrebbe giovare. Insieme ad una salutare riconquista degli spazi urbani interstiziali da parte della vegetazione, mi sembra una delle strategie possibili per perseguire una maggior qualità urbana.

 

La foto del panorama di Torino con la Mole Antonelliana e quella delle Vele di Scampia risultano di pubblico dominio (creativecommons.org)

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