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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

DAL SOGNO IRREALIZZABILE ALL'INCUBO DA EVITARE

UTOPIAMentre le utopie sono fuori moda, si diffondono le distopie, con il loro carico di inquietudine, paura, disgregazione. Con effetti pesanti sulla vita individuale e sulla coesione sociale. Urgono argini etici e il “prendersi per mano”.

di EIDE SPEDICATO IENGO


Ci sono interrogativi che l’uomo costantemente si pone e ideali che costantemente insegue. L’aspirazione ad un progetto di società riscattata dal disordine e dalle ingiustizie è esempio paradigmatico di tali interrogativi e tali ideali. Fidando nella perfettibilità dell’umanità, Thomas More, Tommaso Campanella, Anton Francesco Doni, Francesco Bacone, Louis-Sébastien Mercier e, poi, Rousseau, Saint Simon, Comte (per citare solo alcune delle voci più note), quantunque in gradi e timbri diversi, hanno progettato armoniose società ideali di progresso umano, sociale, civile. Ma ci sono anche incubi che turbano costantemente i pensieri dell’uomo. Uno di questi è l’anti-utopia, ovvero la distopia: il luogo dell’inquietudine, della paura, del disordine; del silenzio delle grandi ragioni orientanti; della disgregazione delle piattaforme e degli organismi di azione collettiva; dei poteri che non si fanno scrupolo di predare prassi, significati, emozioni, fantasie, storie, cosmologie, cartografie esperienziali.
Oggi, a differenza delle utopie decisamente fuori moda, le distopie occupano spazi sempre più ampi e non si limitano ad indicare un luogo immaginario. Sono tra noi, procedono a passo spedito, e non poche si sono tradotte in realtà. A dimostrarlo è, per esempio, l’evidente omologazione di singoli e collettività al dettato di una ideologia virale e pervasiva che anestetizza il pensiero civile, mettendo pericolosamente in crisi il concetto di cittadinanza che, come asserisce Franco Cassano nel suo Homo civicus, è l’invenzione più interessante dell’Occidente. Questa condizione di appartenenza alla realtà statuale chiede, infatti, agli uomini «di saper governare sé stessi, sottraendosi a due opposte derive, quella del totalitarismo, che ne fa dei sudditi, e quella del mercato, che ne fa dei clienti. A queste due forme di eterodirezione essa contrappone la via di una comunità costruita a partire dalla libertà, un equilibrio delicato e prezioso tra diritti e doveri, attenzione e passione, emozioni e progetti, ambizioni private e pubbliche virtù»[1].
Esattamente l’opposto di quanto odiernamente è dato riscontrare e come, peraltro, attestano alcune costanti della nostra contemporaneità. Si rifletta, ad esempio, sulla compromissione dei luoghi quotidiani in cui non ci si sente più casa e sulla progressiva diffusione delle prassi anomiche, delle espressioni di violenza gratuita, dell’area dei diritti senza doveri. Oppure sulle forme di individualismo radicale che addestrano alla competizione frenetica, rissosa, insensata; al culto arrogante di sé; ai vocaboli di una moralità centripeta esclusivamente privata che espunge da sé ogni alterità[2]. O sugli effetti di quel pensiero accomodante e snaturato che, riducendo la natura a calcolo e manipolazione strumentale e il mondo a un paniere di prodotti da consumare all’istante[3], causa  sperpero e saccheggio ambientale. Oppure si ponga attenzione alle ricadute sociali prodotte dall’uso esasperato delle tecnologie immersive che, stemperando la sostanzialità dei contatti quotidiani a favore di una passività de-materializzata e artificiale, non solo inscrivono in un vedere che atrofizza il capire[4], ma aprono la porta alla cultura dell’intrattenimento permanente. Oppure si pensi al processo di esternalizzazione delle informazioni e delle conoscenze (c’è internet) che allevano all’idea di una vita-divano[5] esonerata da impegni e fatiche. In aggiunta a quanto accennato, non si trascurino gli effetti prodotti dall’etica del giustificazionismo diffuso e praticato che contribuisce non poco (beninteso in compagnia di altri ingredienti sociali) a nutrire la fertile serra delle prassi flessibili, revocabili, fluide, discontinue che giocano un ruolo non secondario nell’attuale dissesto della convivenza sociale. Infine, si giudichino gli esiti che derivano dai poteri che si emancipano dal controllo della politica, o dal “fare” di classi dirigenti senza slancio morale, opportuniste, corrotte, aliene da progetti di ri-organizzazione sociale quanto impegnate a curare gli affari privati delle proprie consorterie. Ovviamente, molto altro ancora si potrebbe aggiungere, ma già quanto accennato dà segno di una cornice sociale patologica che ha bisogno di argini etici e urgenti soluzioni propositive, a meno che non si voglia far collassare la società come progetto e come idea.
Le distopie, dunque, sono tra noi, ma a livello di coscienza collettiva è (sembra) debole la consapevolezza di tale loro drammatica e ingombrante presenza, anche a dispetto dei caveat di autorevoli voci al riguardo. Diversamente le si contrasterebbe, le si sarebbe contrastate. Ma così non è, e non è stato. Eppure, espliciti moniti a guardarsi vuoi dalla riduzione dell’uomo a pedina di apparati da lui costruiti, ma a lui inesorabilmente sfuggiti; vuoi dall’invadenza di poteri rigidi e viscerali che privano della libertà e del pensiero sono stati segnalati (e non da oggi) dal cinema e dalla narrativa distopica. Penso qui, per esempio, al romanzo La macchina si ferma di Edward Morgan Forster del 1909 che introduce in un universo tecnologico rapacemente direttivo, dominato da macchine intelligenti che gestiscono interamente la vita degli umani, ai quali, peraltro, è concesso di comunicare solo ed esclusivamente attraverso una serie di schermi (una visione profetica delle relazioni virtuali dell’oggi?)[6]. Oppure a Noi di Evgenij Zamjatin  pubblicato nel 1924, in cui i cittadini sono ridotti a numeri che abitano case trasparenti per consentire ai controllori (e a chiunque) di verificare il rispetto delle regole dello Stato unico fin nei minimi dettagli, addirittura nello spazio dell’intimità sessuale[7]. Ma mi riferisco anche ai più noti Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932), a 1984 di George Orwell (1948), a Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (1953) o a L’uomo che voleva essere colpevole di Henric Stangerup del 1973.
A prescindere dai temi-chiave che ne sostengono la trama, anche al grande schermo siamo debitori di voci critiche e apprensive nei confronti di una società alienata, spersonalizzata, prona agli ordini di totalitarismi politici o tecnologici. Una società, dunque, inconsapevolmente nemica di sé stessa e destinata all’auto-annientamento a meno che qualche ribelle non riesca a creare turbolenze e sovvertire il sistema. A cominciare da Metropolis del regista Fritz Lang nel 1927, a Fahrenheit 451 riproposto nello schermo da Francois Truffau nel 1966, a La fuga di Logan del 1976 del regista Michael Anderson, a Blade Ranner di Ridley Scott del 1982, o al recente The Lobster del regista greco Yorgos Lantimos del 2015, si coglie in ciascuno di questi film (tra le numerose altre suggestioni) un forte richiamo a contrastare i percorsi omologanti e l’inerzia del proprio fare, agire, pensare.
Paradossalmente, dunque, proprio le età di sconvolgimenti e di contrasti, come quelli che stiamo vivendo, possono (potrebbero) sollecitare riscatti e indurre a investire risorse nella dimensione esistenziale del non essere ancora ma del possibile. Un possibile lungimirante (mi piace pensare) che metta al centro della scena il significato profondo della vita nelle sue molteplici espressioni e miri alla costruzione di realtà dialoganti e riconciliate. Un possibile che non cerca nel passato le sue soluzioni, ma -attraverso la lettura onesta del presente e delle sue innumerevoli, pesanti zone d’ombra- voglia impegnarsi nella costruzione di un futuro migliore, più umano e dignitoso, del quale ciascuno (nessuno escluso) è chiamato a far parte. Del resto, data la situazione di aut aut in cui l’umanità sta rovinosamente scivolando, questa appare l’unica opzione possibile. Non sono consentite, infatti, che due scelte, come suggerisce Bauman; finire tutti in una fossa comune o prendersi per mano[8]. È un’utopia scegliere la seconda opzione? Può darsi, se per utopia intendiamo la capacità di guardare avanti e voler dare un qualche significato alla vita.

[1] F. Cassano, Homo civicus, Dedalo, 2004, p.12.     
[2] Scrive Bauman: «la nuova moralità del “ritorno al sé” si basa su una nuova nozione di responsabilità […] non più orientata su qualcosa che è “fuori” -l’Altro, i nostri cari, “noi”, la comunità, la società, l’umanità, il pianeta in cui tutti viviamo – ma sul mio corpo, sulla sua agilità, sulla sua capacità di gratificarci “stando bene”. Il danno collaterale prodotto da questo reindirizzamento consiste nella privatizzazione e nella autoreferenzialità del dovere morale. La nuova moralità da centrifuga si fa centripeta e se un tempo era il principale collante al servizio del superamento delle distanze fra persone, del loro avvicinamento, dell’integrazione, ora entra a far parte del grande e crescente armamentario della divisione, della separazione, della dissociazione, della alienazione, della lacerazione». Retrotopia, Laterza, 2017, pp.129-130.  
[3] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, 2002.    
[4] L’ipermediatizzazione spinge in un perimetro che rischia di escludere dal contatto con la realtà. Giovanni Sartori parlava a proposito dell’homo insapiens che vive senza il sostegno di una coerente visione del mondo e, nel contempo, allertava sul rischio di fossilizzazione e museificazione dell’homo sapiens.  
[5] Questa espressione è di Paola Mastrocola. Cfr. La passione ribelle, Laterza, 2017, p. 58.  
[6] Cfr. sul tema R. Righetto, Mondi da paura. Il passato ci salverà?, in Avvenire, 23 agosto, 2018, p. 23. 
[7] Gli incontri sessuali sono possibili, previa domanda e autorizzazione di un ufficio preposto e, in questo caso, è consentito chiudere le tende delle finestre, ma sempre su preavviso e permesso delle autorità di condominio. Questa distopia della trasparenza denuncia una visione vistosamente pessimistica della natura umana, incapace di autogovernarsi, da cui la necessità dei sistemi totalitari. A. Lavazza, La libertà fa male. Parola di “benefattore”, in “Avvenire”, cit., p. 23.  
[8] Z. Bauman, Retrotopia, op.cit.

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