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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

LA MECCANICA DELLA VITA E IL CORPO MACCHINA

eideStiamo transitando in una fase evolutiva che dall’homo sapiens ci porterà al transumano? Non accettando i limiti della condizione umana, sfuma anche la possibilità di dare senso alla vita.

di EIDE SPEDICATO IENGO

 

Che lo si voglia o no, è fuor di dubbio che nella contemporaneità va sempre più irrobustendosi un nuovo fenotipo di società che tende a ridurre la natura e l’uomo a calcolo, misura, manipolazione strumentale. Una società, dunque, che -avendo abbracciato la religione delle possibilità mondane illimitate- sta progressivamente avvicinandosi al dettato del “transumanesimo”, una linea di pensiero che attraverso la tecnologia mira ad ampliare i confini della specie umana, basandosi sull’ipotesi che la sua forma attuale non costituisce la fine del suo sviluppo. Ovvero, questo orientamento culturale -ponendosi l’obiettivo di trascendere la biologia dell’uomo attraverso la tecnologia- ritiene possibile superarne gli attuali limiti a favore di una condizione talmente “nuova” da non essere più classificabile, nel prossimo futuro, solo come umana. Siamo, dunque, destinati a diventare una nuova specie, un ibrido che fonde l’uomo con la macchina? Per certi versi lo siamo già[1].
Uno dei paradigmi della nostra contemporaneità è, non casualmente, l’ostentazione dei mezzi tecnologici messi a disposizione per riparare le défaillance della macchina umana. È inconfutabile, per esempio, che le biotecnologie e le scienze biomediche stanno già traghettandoci in una nuova era evoluzionistica in cui ci si rapporta sempre meno alla vita come indivisibile totalità e sempre più alla scomponibilità e alla interscambiabilità delle sue componenti: ossia alla meccanica della vita. Il vocabolario scientifico del manipola-adegua-ripara-migliora, da cui l’elogio dell’artefatto, l’esaltazione della sostituzione e della protesi, l’arretramento della morte e la reificazione della vita nutre questa logica che manipola inevitabilmente il testamento biologico dell’homo sapiens
Quanto appena detto è confermato, per esempio, dalla medicina dei trapianti che, de-territorializzando il corpo e i suoi organi, segnala che l’uomo è sempre più percepito come un insieme di cromosomi, un materiale biologico, un utensile, una “macchina”, appunto, che si può scomporre, utilizzare, ricomporre, inter-scambiare, modificare. Le «decine di migliaia di embrioni generati in provetta, congelati e in attesa di essere impiantati o di trasformarsi in “materia prima” per la ricerca scientifica e per i trapianti»[2] sono la prova inoppugnabile che il post-umano rappresenta una tessera condivisa quanto significativa del nuovo rapporto che si sta instaurando fra uomo, vita, natura.
È questa cornice culturale che promuove la progressiva adesione, anche nel comune sentire, alla sconfessione dell’esistenza come individualità sostanziale ed esperienziale tanto concreta e imperfetta quanto espressiva di una storia, di una cultura, di un ambiente, di un contesto. A documentare questa valutazione è, per esempio, l’idealizzato epicureismo di massa sulla realtà del corpo.
Mai come oggi il corpo occupa la scena sociale: palestre, igiene pronunciata, training fisici, costruzioni dietetiche segnalano che l’individuo post-moderno valuta sé stesso soprattutto in quanto corpo. Un corpo che, tuttavia, pur godendo di accorgimenti e vezzeggiamenti non pare essere oggetto di quell’attenzione e di quella premura che costituiscono gli ingredienti insostituibili per valorizzarlo come un unicum irriproducibile. Paradossalmente, infatti, la cura che la contemporaneità ad esso rivolge, lo nega quanto più sembra privilegiarlo, migliorarlo, scolpirlo sulla base di un ideale modello. Lo nega, appunto, come corpo e lo afferma come “macchina”. Una macchina che viene vissuta non come fonte di piacere, ma come oggetto di meticolosa sorveglianza nella continua ossessione della decadenza e della cattiva prestazione. Insomma, quanto più la scienza, studiando il corpo, ne dissipa i segreti, tanto più lo avvicina alla cosa inorganica: da cui un corpo “superfluo”, un non-senso[3].
Esprimere perplessità su un tale scenario non intende, naturalmente,  minimizzare il ruolo e la funzione della tecnica nella realtà umana e sociale (l’uomo non è da questa separabile, data la sua incompiutezza e la sua mancanza di specializzazioni naturali), né sottovalutare l’approccio ingegneristico, per esempio, nel processo di ripristino della salute, ma solo praticare un esercizio di realismo: ossia, chiedersi se sia corretto aderire acriticamente a una lettura del mondo abbagliata dall’idea di onnipotenza dell’apparato tecnologico, o piuttosto se non si debba condividere l’idea che la vita ha significato solo se la si accetta in tutte le sue espressioni, comprese quelle che ne segnalano la fragilità, i limiti, la finitezza. 
A questo proposito Alberto Oliverio rileva che l’ingegneria genetica, con la sua possibilità di correggere le imperfezioni del corpo e di introdurre alterazioni somatiche di tipo migliorativo, può imboccare sia la strada del curare, sia quella di rispondere a domande che attengono ad una specie di supermercato genetico del superfluo[4]. Negli Stati Uniti, già vent’anni fa, una solida inchiesta rilevava che la proposta di sottoporre ad una sorta di doping genetico feti normali per accrescere l’altezza e lo sviluppo delle masse muscolari dei futuri nati incontrava «il favore di un buon numero di genitori, più propensi ad avere dei figli alti e robusti, potenziali giocatori di basket, anziché dei pesi-piuma»[5]. Il caso specifico della statura, continua Oliverio, «è “esemplare” in quanto sottolinea quale peso esercitino gli standard socialmente apprezzati: per lo meno nella società statunitense dove le statistiche sulle assunzioni di personale dimostrano che gli individui alti vengono generalmente preferiti ai bassi. Il corpo, insomma, potrebbe essere soggetto in futuro a forme di “chirurgia genetica estetica” priva di una reale o immediata valenza terapeutica ma legata ai miglioramenti di caratteri somatici che assicurino “prestazioni” o immagini migliori: insomma il termine palestrato di oggi, che implica un miglioramento della forma fisica esterna, potrebbe domani assumere una connotazione genetico-molecolare, implicare un corpo migliore per le sue prestazioni sia fisiologiche che di prestanza somatica»[6].
Quanto appena esposto invita a prestare attenzione alla circostanza che l’autonomia della scienza molto spesso (troppo spesso) diventa lo schermo ideologico dietro cui si nasconde chi non riconosce i limiti imposti dall’etica[7]. Condividere l’idea che non è più l’etica a promuovere la tecnica, ma questa a condizionare quella, vuol dire abbandonarsi alla fede di un’evoluzione comunque e in ogni caso ascendente e illimitata, condizionare la vita sulla base di un ideale stereotipo cui è d’obbligo adeguarsi, mortificare il significato dell’uomo come ente intenzionale, teleologico, organizzatore di sé e del senso delle cose. A mio modesto parere, bisognerebbe invece impegnarsi a individuare cosa meriti veramente la nostra attenzione, cosa realmente conti nella vita e, non secondariamente, imparare a leggere i nostri limiti come strumenti per percorsi personalizzati di crescita: a  meno che non si voglia, per dirla ancora con Alberto Oliverio, che le manifestazioni dell’individualità appaiano in futuro come una patetica gobba leopardiana che sarebbe necessario correggere per essere come gli altri[8].


[1] M. O’Connell, Essere una macchina, Adelphi, 2018

[2] F. Bellino, Bioetica e post-umano in “Prospettiva Persona”, VII, 1998, p.24

[3] F. Iengo, Il corpo superfluo. La natura e l’Occidente, Edizioni dell’Orso, 1998

[4] A. Oliverio, Prefazione in F. Iengo, op. cit., p.10

[5] Ibidem

[6] Ibidem

[7] U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, 1999

[8] A. Oliverio, op, cit., p.11

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