Sempre domani. Storia d’un ufficiale inglese prigioniero di guerra in italia.Qualevita edizioni.
È l’ottavo volume della collana E si divisero il pane che non c’era (Qualevita edizioni, Torre dei Nolfi), nata nel 1995 con il primo libro dallo stesso titolo della collana, proseguendo col volume Il sentiero della libertà, un tratto di strada con Carlo Azeglio Ciampi, contenente il diario di Carlo Azeglio Ciampi, in seguito edito dalla casa editrice Laterza, col titolo Il sentiero della libertà, un libro della memoria con Carlo Azeglio Ciampi (2003).
Il libro di John Leeming, dal titolo inglese “Always To-morrow”, in italiano Sempre Domani, racconta i suoi tre anni di prigionia in Italia, nel periodo della seconda guerra mondiale. Un libro, resoconto particolareggiato di episodi e riflessioni, di progetti e delusioni. L’autore descrive la sua esperienza con vivace umorismo e quasi totale assenza di pessimismo. Sono vicende originali di vita realmente vissuta. L’ottimismo ed il fascino dell’avventura riescono a sdrammatizzare situazioni obiettivamente tragiche, persino divertendo il lettore.
Leeming, ufficiale dell’Air Force britannica, si trova su un aereo, decollato da Londra diretto a Malta per trasferirvi una ingente quantità di sterline, colpito dalla contraerea tedesca e precipitato in Sicilia nei pressi di Catania. L’aereo si schianta, ma l’equipaggio resta incolume. Da quel momento, i militari inglesi sono prigionieri degli italiani: «Tutto questo accadeva il 20 novembre 1940, cinque mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia», annota Leeming.
Da quel momento inizia il racconto delle vicende da prigioniero di guerra, vissute da Leeming. Il primo impatto con la popolazione italiana colpisce positivamente l’autore ed i suoi sei compagni. Vengono accolti dai siciliani nella maniera più amichevole possibile: «Ci sedemmo al sole, mangiando avidamente pane, formaggio e bevendo vino. Tutta la popolazione del villaggio si radunò intorno a noi, mormorando e tentando di spiegare con la mimica che non ci consideravano nemici».
L’impressione di sgomento ricevuta all’inizio dagli inglesi si ribalta e diventa amicizia rispettosa e cordiale. Dopo l’incontro con i contadini siciliani, giungono i militari italiani della Marina e accompagnano gli inglesi nella loro sede. Scrive Leeming: «Ci sedemmo per consumare un pranzo sovrabbondante, anche se improvvisato. Una situazione che appariva poco chiara. Noi credevamo che in Italia scarseggiasse il cibo, loro erano convinti che in Inghilterra si morisse di fame...».
Gli inglesi, ormai prigionieri degli italiani, vengono condotti a Catania, al quartiere generale, accolti dal generale Lodi.
«Io chiesi ad un ufficiale italiano che avrei avuto bisogno di un medico perché mi guardasse il braccio. Assicurandomi che il dottore sarebbe venuto presto, l’ufficiale mi insegnò la prima parola in italiano. Una parola che avrei sentito spesso nei futuri due anni e mezzo. Domani. Domani è qualcosa di particolarmente italiano. Una parola molto usata, pronunciata in quasi tutte le conversazioni. Tutti i prigionieri l’avrebbero conosciuta bene. I nuovi la trovavano consolante, le persone esperte irritante. Il dizionario dice che domani significa to-morrow. Per gli italiani vuol dire “forse”, “una volta o l’altra”, “quando Dio vorrà”. Gli italiani sono cortesi e quando chiedi qualcosa detestano rispondere immediatamente “no” o “impossibile”. Rispondono in modo rassicurante: “Sì, sì, certo domani”. La questione quindi è lasciata in sospeso e l’italiano va per la sua strada, confortato dal pensiero che ha respinto, con molto tatto, una richiesta scabrosa.»
Da Catania vengono trasferiti a Roma. All’aerodromo di Centocelle.
«Quando vi arrivammo, risultò un posto cupo, melmoso. Un aerodromo in mezzo alle paludi…. Fummo alloggiati in una piccola casa di campagna di quattro stanze, che avrebbe avuto bisogno di ampie riparazioni e di una mano di vernice. Muri sottili finestre sgangherate, pavimenti piastrellati. L’unica fonte di riscaldamento era una stufa, all’ingresso principale… Vi stavamo io, Boyd e tre ufficiali del nostro equipaggio… Per i rapporti sociali, a Roma si stava meglio che a Catania. Eravamo in cinque. Un mazzo di carte da gioco datoci da un ufficiale italiano ci aiutò notevolmente.»
Da Roma a Sulmona, a Villa Orsini.
«Villa Orsini a circa un miglio dalla città di Sulmona, non era molto grande. Il suo architetto, a quanto sembrava, aveva curato molto le decorazioni e gli ornamenti: una peschiera di marmo con pesci rossi vicino all’ingresso principale, un atrio imponente, uno scalone, una statua di bronzo, pavimenti con mosaici, porte intagliate con cura particolare ed altre cose di questo genere. Ma l’architetto sembrava non aver mai considerato la possibilità che ci si potesse abitare, perché era estremamente scomoda. Rimasta vuota per anni, pochi mesi prima che vi arrivassimo era stata acquistata da una nobildonna, che intendeva rimetterla a posto e adatta per viverci.»
A Sulmona ricevono ottima accoglienza e si troveranno in buona compagnia, assistiti con la massima cura, con rispetto e con reale disponibilità a soddisfare le loro istanze
«Arrivò un uomo che sarebbe diventato uno dei nostri buoni amici, che si presentò parlando in inglese, il tenente Augusto Ricciardi. In breve ci disse che sua madre parlava inglese e che lui aveva avuto una governante inglese. Si scusò per il disordine… ricondusse il comandante alla calma e le sentinelle alla ragione. Grazie al suo grande impegno avemmo un pasto servito a tavola come si deve e, per di più, un vero fuoco in una stufa di metallo...».
Leeming scrive: «Nei primi giorni a Sulmona avevamo cibo in abbondanza e, tutto sommato, la vita a Villa Orsini non era spiacevole. I due aiutanti di Ricciardi, il Maresciallo ed il sergente Conti, erano persone simpatiche». Ottimi i rapporti con le persone che conosceranno nel corso delle loro passeggiate nei luoghi esterni.
Quando a Villa Orsini arrivano parecchi ufficiali e generali catturati dagli italiani e dai tedeschi diventa impossibile viverci. Sono costretti a fare sacrifici.
Da Sulmona vengono trasferiti a Vincigliata, «un castello scuro, medievale, tetro e severo…Su un giornale inglese ho visto foto di un posto attraente, letto di alloggi piacevoli assegnatici, addirittura di lusso …le foto ritraevano una dimora che non avevo mai visto: certamente non era il castello di Vincigliata» in provincia di Firenze. Questa struttura era stata costruita alla fine del tredicesimo secolo. Acquistato poi, nel 1855, quando era diventato un rudere, «da un inglese, Temple Leader, un ricco membro del partito liberale a Westminster. L’inglese ricostruì il castello che, pur mantenendo l’antico aspetto dentro e fuori, venne fornito di cucine, soggiorni, camere da letto e gabinetti in maniera da diventare abitabile». Il castello si rivelerà una dimora orribile.
La vita a Vincigliata diventa dura e controllata, veramente opprimente per un prigioniero. I loro progetti di fuga a volte falliscono, altre riescono, anche se poi verranno ricatturati. Leeming riuscirà a farsi riconoscere “malato mentale” e tornerà in patria nonostante gli inciampi dovuti a macchinosi impedimenti burocratici e alle sofferenze patite per essersi ridotto in condizioni fisiche gravissime. Dopo l’8 settembre 1943, i prigionieri inglesi, suoi amici, riusciranno a liberarsi e, grazie all’aiuto loro garantito dai contadini che li ospitarono, o perché accolti nei conventi o sorretti dai partigiani, potranno finalmente arrivare in Inghilterra .