In occasione dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo pubblichiamo alcuni brani di riflessione sulla guerra e la Resistenza in Abruzzo tratti dall’ultimo volume dello storico Costantino Felice, Mezzogiorno tra identità e storia, Catastrofi, retoriche, luoghi comuni, Donzelli, Roma 20171.
Luci ed ombre dei comportamenti umani nel contesto degradato e rischioso della guerra, che conosce tanto la generosità e l’eroismo quanto gli egoismi e la viltà. Il caso emblematico dell'Abruzzo.
Chiunque si sia trovato in quei drammatici frangenti tra le «genti d’Abruzzo e Molise» ha potuto sperimentarne l’afflato generoso e altruistico. E in tanti – evasi dai campi di prigionia, soldati sbandati, confinati politici – ne danno poi testimonianza attraverso biografie e ricordi, o anche in opere letterarie talvolta di grande pregio e autorevolezza. È la cosiddetta «Resistenza umanitaria» (locuzione non a caso coniata proprio qui): una modalità di opposizione al nazifascismo – l’umanità contrapposta alla barbarie – che difficilmente trova riscontri in altre regioni. Ma davvero ci troviamo di fronte a un’indole particolare, a una specifica identità caratteriale? O non si tratta piuttosto di scelte e comportamenti che semplicemente rimandano a determinate emergenze storiche (la guerra), nelle quali fattore decisivo risulta non un qualche genius loci bensì, in ultima istanza, la libera opzione di ciascuno?
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La guerra in Abruzzo e Molise, di una potenza distruttrice mai vista prima, diventa a un certo momento, come in altri analoghi contesti bellici, «guerra in casa», «guerra totale», guerra ai civili. L’enormità degli orrori e dei patimenti che essa normalmente provoca qui sembra assumere toni ancora più foschi e disumani. La vita diventa esperienza estrema: nella immediatezza della sua possibile negazione (la morte), la più estrema possibile. In circostanze del genere anche le scelte e i comportamenti cedono a radicalizzazioni opposte. Indubbiamente può riscontrarsi un rafforzamento dei sistemi di relazione (parentado, amicizia, comparatico, famiglia estesa), già di per sé abbastanza solidi nel mondo rurale. Ma può accadere anche il contrario: uno sfilacciamento cioè, fino alla frantumazione, di antiche e rassicuranti reti comunitarie, spesso degli stessi vincoli familiari. Certo, lo stato di necessità e angoscia tende a rinsaldare i sentimenti affettivi che ciascuno prova verso i propri cari e conoscenti; ma non sempre questa maggiore trepidazione verso gli altri si traduce in scambi concreti di reciproco aiuto. Non di rado, anzi, a prevalere sono gli atteggiamenti conflittuali e belluini. L’esperienza del terrore può spezzare i vincoli più sacri fra gli esseri umani. Basterebbe del resto rileggersi qualche pagina dei grandi classici della letteratura: la Cronica di Matteo Villani («…cominciò questa inumanità crudele, che le madri e’ padri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli le madri e’ padri, e l’un fratello l’altro e gli altri congiunti») o il Decameron di Giovanni Boccaccio sulla «peste nera» del 1348 («…l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito… li padri e le madri i figlioli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano»), per non dire de I promessi sposi di Manzoni sulla peste di Milano o, ancora di più, della sua Storia della colonna infame.
Di fronte ad angosce radicali viene a determinarsi quella bipolarità di opzioni – da una parte la guerra di tutti contro tutti, dall’altra l’intensificarsi dei legami solidaristici – che la migliore storiografia (per non dire della grande letteratura laica e religiosa) ha sufficientemente evidenziato come tipica delle situazioni di massimo pericolo. Nei brani di lettere censurate durante la guerra, specie in provincia di Chieti, si trovano spesso riferimenti alla «commiserazione» e alla «pietà» che la «buona gente» ospitante prova nei confronti di quanti cercano rifugio e sostegno. Si è detto della straordinaria generosità con cui vengono accolte le migliaia di evasi dai campi di prigionia. Ma in frammenti di corrispondenza ci si imbatte anche in sconsolate notazioni su gesti di tutt’altro segno. Chi descrive nei termini più crudi e impietosi questa disumanizzazione, dandole persino connotati classisti oltre che di contrapposizione città-campagna, è Corrado Alvaro (politicamente non certo osservatore «da sinistra»), durante la «più grande catastrofe della storia d’Italia» rifugiato anche lui nel capoluogo teatino.
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Ma a parte le grettezze della piccola borghesia urbana (che poi per Alvaro sono tipiche dell’intera classe dirigente nazionale), gli egoismi prevalgono talora all’interno degli stessi vincoli familiari. Un ferroviere di Pescara, dopo un bombardamento sotto il quale la moglie resta gravemente ferita, manda il figlio in bicicletta a Ortona «per invocare l’aiuto dei suoceri, affinché inviassero qualche mezzo per trasportare la loro figlia ferita». Ma è tutto inutile. «Nessuno – egli ricorda con amarezza – ebbe compassione del doloroso stato in cui si trovava la mia famiglia e il ritorno a vuoto di mio figlio Nicolangelo mi fece piangere». Siamo al più alto grado di tensione tra contrapposti istinti – amore paterno e sopravvivenza individuale – cui può costringere la drammaticità di certe situazioni.
Di questo impressionante abbrutimento sono tante, purtroppo, le testimonianze. Alla strage di Pietransieri, la più efferata compiuta in Abruzzo dagli occupanti nazisti, seguono nel dopoguerra un paio di procedimenti giudiziari presso il Tribunale di Sulmona: in entrambi finiscono sotto accusa personaggi sorpresi a rovistare tra i cadaveri in cerca di oggetti preziosi o piccole cose. Nell’infuriare della «battaglia di Ortona» allo sfacelo materiale si aggiunge quello morale, pure evidenziato dall’intensificarsi dei fenomeni di sciacallaggio. Un testimone diretto, il sacerdote Antonio Politi, scrive nel suo diario di quei giorni: «La scena più umiliante: gli stessi civili, come iene e sciacalli, sotto il fischiare dei proiettili si accaniscono contro le poche masserizie in abitazioni di altri concittadini». Un uomo «in preda al più vivo terrore» annuncia ai rifugiati in una chiesetta cimiteriale che 36 persone giacciono sotto le macerie di un villino poco distante. Per un paio di giorni – scrive ancora don Antonio – continuano a udirsi «i lamenti e le grida strazianti degli sventurati». Qualcuno s’intenerisce e tenta d’intervenire. Ma vorrebbe dire esporsi all’artiglieria tedesca. Sulla solidarietà prevale allora l’autodifesa: «Li abbiamo dovuto lasciare morire disperati», si rammarica un altro testimone. Sempre nella chiesetta del cimitero a un certo momento il silenzio viene rotto dal «forte pianto» di un bimbo. Invano la madre cerca di calmarlo stringendoselo al petto. Prova anche a coprirgli la «boccuccia col grembiule». Ma, incurante di queste premure, mentre si sente anche un vecchio tossire, tra i presenti si leva una voce: «Soffocateli, strozzateli, non importa: due possono ben morire piuttosto che attirare l’attenzione dei tedeschi su tutti noi». E un altro, da una vicina cappella, insiste: «Sì sì, strozzateli!».
Siamo dunque sul terreno limaccioso di quell’ambiguità della natura umana – una «ambiguità strutturale», dicono i teologi (ammesso che nell’era della tecnica possano ancora farsi distinzioni tra «natura» e «artificio») – che in circostanze del genere, come si diceva, può manifestarsi nel suo lato peggiore. Nell’intreccio tra pulsioni altruistiche e spinte egoistiche, di cui è impastata in fondo la psiche di ogni individuo, si può arrivare alla massima divaricazione (sacrificare sé per gli altri o uccidere gli altri per sé), facendo alla fine ripiegare sul cieco anelito di autoconservazione. Oltre ad Abele – per dirla con Luzzatto (che riprende il Primo Levi di Se non ora, quando?) – in ciascuno può annidarsi un Caino. Il nemico non sta soltanto fuori di noi, nell’altro da sé, ma anche in noi stessi.
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Purtroppo non c’è solo l’Abruzzo caloroso e accogliente descritto da Alba de Céspedes e Natalia Ginsburg. Ne abbiamo già visto alcuni «altri» di segno diverso. C’è anche, per fare un esempio ancora, l’Abruzzo dei soprusi e delle perfidie descritto nel suo diario-racconto da Maria Eisenstein, l’«internata numero 6» del campo di concentramento femminile lancianese, la quale dopo l’8 settembre, come accennato, con de Céspedes condivide alcuni momenti della loro rocambolesca fuga verso il Sud liberato: le vessazioni della direttrice «dalle ottime aderenze fasciste» e del «falso e triviale» commissario che si autoproclamava guardiano della morale, le speculazioni dei contadini dai quali le internate compravano i viveri, la corruzione del personale amministrativo e ministeriale. Significative sono peraltro le vicissitudini di questo testo nei decenni del dopoguerra (pubblicato la prima volta nell’ottobre 1944, a Lanciano venne «eliminato dalla circolazione»), come pure impressiona il fatto che nella cittadina frentana, medaglia d’oro della Resistenza, per cinquant’anni nessuno si sia ricordato di quel campo di reclusione (ce n’erano dello stesso tipo anche a Casacalenda e Vinchiaturo, nel Molise), né del suo sito né della sua storia, pur avendo svolto un ruolo nella rivolta ottobrina: ennesimi esempi, insomma, della «rimozione» e della «memoria divisa» che hanno contrassegnato la storia culturale e civile dell’Italia repubblicana. A mettere a dura prova il mito degli italiani «brava gente» [...] basterebbe del resto la condotta del compagno dell’autrice, un antifascista, che vigliaccamente si dilegua nel momento per lei di maggiore bisogno.
Non c’è solo l’Abruzzo generoso e altruista della Resistenza umanitaria. In tante vicende si vedono prevalere egoismi e sopraffazioni d’ogni genere. Se del resto stiamo ad onorare tanti «martiri» della guerra partigiana, armata o disarmata che fosse, è perché, nella stragrande maggioranza dei casi (stragi comprese), altri abruzzesi e molisani, vissuti all’apparenza con dignità e onore, li hanno spiati e consegnati al nemico. In un contesto estremamente degradato e rischioso come quello della «guerra in casa» non ci si può attendere che tutto rifulga di valori positivi. Ci sono luci, ma anche ombre. Il quadro complessivamente tracciato finora, seppure differenziato quanto ad esiti resistenziali e grado di consapevolezza, non deve far pensare che gli ex prigionieri in fuga verso la libertà incontrino unicamente soccorritori benevoli e pietosi. Non soltanto di un’esplosione di buona umanità si è trattato. In quel drammatico periodo – per dirla cristianamente con i monaci di San Gabriele dell’Addolorata (Teramo) – certamente vengono scolpite soprattutto «pagine di amore», ma non mancano «pagine di paura e di odio»: ne sono anzi quasi l’inevitabile contrappunto. Come tante volte sottolineato dalla migliore storiografia, non abbiamo soltanto il bianco e il nero: c’è anche il grigio nelle sue varie tonalità. Affiorano qua e là comportamenti di segno negativo: opportunismi, viltà, tradimenti. Occorre riconoscere – anche per non offrire il destro a strampalati e distorcenti revisionismi (in miniatura se ne trovano pure in Abruzzo e Molise) – che in qualche caso la violenza, pur ammantata di nobili intenzioni, è stata gratuita e insensata.
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Di fronte alle circostanze più dure le reazioni, dunque, possono essere varie. Non è soltanto l’identità regionale o comunitaria a sbiadire: può sfumare, o addirittura frantumarsi, persino l’identità personale. In ogni aggregato sociale, al di là delle classificazioni antropologiche, si trovano soggetti buoni e soggetti cattivi. Ma le ambivalenze, insite come sono nella specie umana in quanto tale, possono improntare anche i comportamenti individuali. Senza arrivare al pirandelliano Uno, nessuno e centomila, e neppure, su tutt’altro piano, al sosia di Dostoevskij, bisognerebbe riconoscere che, come per una comunità, ugualmente per il singolo non esiste una natura definita a priori. Per dirla con Sartre, non c’è un’essenza che precede l’esistenza, ciascuno è ciò che si costruisce, ciò che decide di essere, incombendo sull’uomo, su ogni uomo, la «condanna» ad essere libero. Pure nei momenti di massimo pericolo si può – forse si deve – scegliere da che parte stare: in quel frangente bellico, a rischio della vita, la libertà o la tirannide.
(1) Nel pubblicare questi brani, ricordiamo che Felice è autore del volume Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, Donzelli, Roma 2014, da molti ritenuto (ad esempio da Marcello Flores) il frutto più maturo ed esauriente della storiografia resistenziale abruzzese. Vale la pena segnalare che Marcello Flores è autore, insieme a Mimmo Franzinelli, del corposo volume Storia della Resistenza (Laterza, Roma-Bari 1919), il quadro più completo e aggiornato della lotta di liberazione in Italia, dove finalmente trovano ampio spazio anche le vicende della Resistenza abruzzese, con riguardo soprattutto alla Brigata Maiella.