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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

TUTTI A CASA

ROBERTOL’Italia dopo l’8 settembre 1943 nel film di Luigi Comencini, che concilia umorismo, tono realistico-drammatico e messaggio civile. L’ironia della “Badoglieide” sul nuovo capo del governo.

Dopo lo sbarco alleato in Sicilia (10 luglio 1943), che segna la definitiva sconfitta dell’Italia fascista nella Seconda Guerra Mondiale, il re Vittorio Emanuele III, in accordo con l’ala moderata del regime, rappresentata da Dino Grandi e Galeazzo Ciano, sollecita una seduta del Gran Consiglio (24-25 luglio 1943), nel corso della quale Mussolini viene destituito dalle sue cariche e arrestato. La guida del governo passa al maresciallo Pietro FIRMA LEOMBRONIBadoglio. Gli italiani accolgono entrambe le notizie con l’abbattimento dei simboli del regime e con festose manifestazioni di piazza. Alcune di esse vengono però represse duramente dal governo badogliano, come quella degli operai delle Reggiane di Reggio Emilia il 28 luglio del 1943, che si conclude con nove lavoratori morti e una decina di feriti. Nonostante la formale dichiarazione di voler continuare la guerra a fianco della Germania, Badoglio avvia segretamente le trattative di pace con gli anglo-americani, che verranno siglate il 3 settembre 1943 a Cassibile (Siracusa) e ufficialmente comunicate l’8 settembre. Subito dopo, il re e il governo fuggono a Brindisi, dove sono già sbarcati gli alleati, abbandonando Roma al suo destino. Contemporaneamente, i tedeschi occupano l’intera Italia centro-settentrionale, e si attestano sulla linea Gustav, tra Gaeta e la foce del Sangro, con punto nodale a Cassino. Nel caotico contesto del dopo 8 settembre (una data più volte identificata con quella della “morte della patria”), quando la sensazione di totale catastrofe sembra non lasciare adito ad alcuna speranza di riscatto, cominciano a manifestarsi i primi episodi della lotta partigiana. Sebbene le ambiguità che avevano preceduto la firma dell’armistizio, e la stessa fuga del re, avessero impedito l’organizzazione di un’efficace resistenza contro i tedeschi, si aprono, in questa fase, notevoli spazi alla libertà di coscienza e alla scelta degli individui. Accanto, infatti, alla decisione di molti di tornare a casa, c’è quella di coloro che scelgono di resistere, di darsi alla macchia, e avviare una guerra di popolo volta a liberare il paese dall’occupante nazista. In particolare a Roma, abbandonata al proprio destino dal re e da Badoglio, a Porta San Paolo, un gruppo di militari (per lo più granatieri) e di civili tenta, per libera scelta, sia pure invano, di opporsi all’occupazione nazista. Più o meno contemporaneamente, migliaia di soldati italiani vengono deportati in Germania e condannati a lavorare per il Reich, in quanto, rimasti fedeli al re e a Badoglio, rifiutano di arruolarsi nelle truppe della Repubblica Sociale Italiana, lo Stato-fantoccio creato da Mussolini a Salò, asservito all’alleato tedesco.

8 settembreUna drammatica rappresentazione della realtà italiana all’indomani dell’8 settembre è quella fornita dal film Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini. Protagonista della vicenda è un sottotenente dell’esercito italiano (interpretato da Alberto Sordi), il quale, pur coinvolto nel generale disorientamento seguito alla notizia dell’armistizio, intende recarsi presso il comando del suo reggimento per prendere ordini. Resosi ben presto conto del venir meno di qualsiasi autorità militare, egli si rassegna a malincuore a seguire il flusso generale, che spinge tutti, soldati e ufficiali, a smobilitare, e a tentare il ritorno a casa. Nel corso di una lunga peregrinazione, insieme ad alcuni suoi uomini, attraverso l’Italia sconvolta dalle rovine della guerra, occupata ed esposta ai rastrellamenti nazisti, giunge infine a Napoli, dove si trova coinvolto nell’insurrezione popolare delle Quattro Giornate. Nella temperie della tragedia della guerra e della ferocia nazista, quello del sottotenente acquista sempre più i caratteri di un vero e proprio viaggio di formazione, che lo induce a ripensare autocriticamente alla sua superficiale precedente adesione al fascismo. Di qui la graduale maturazione dell’opzione per la lotta partigiana, che esplode nel finale, quando sceglie finalmente da che parte stare (“non si può sempre stare a guardare!”) e comincia a sparare contro i tedeschi. In questo film, Comencini, grazie alla collaborazione di un eccezionale Sordi, riesce a conciliare felicemente il tono umoristico, tipico del genere della “commedia all’italiana” (a cui il film appartiene a tutti gli effetti), e che si manifesta in gustosi episodi di misurata comicità, con quello realistico-drammatico, e con il messaggio civile di cui il film si fa interprete. Esso si inserisce perfettamente nel nuovo clima politico-culturale, di segno democratico e progressista, in cui opera il cinema italiano all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, e vede la rimozione dei tabù conservatori del decennio precedente, che avevano contribuito a stendere un vero e proprio muro di silenzio sulla Resistenza contro il nazifascismo: un evento che tende invece ora a essere rivalutato come fondativo della nuova Repubblica Italiana. Di più: l’ispirazione democratica e antifascista del film si manifesta nell’esplicita condanna dell’attendismo e della cosiddetta “zona grigia”, in cui buona parte degli italiani preferirono attestarsi in quei mesi, e nell’esaltazione, al contrario, del dovere etico di prendere posizione. Da un punto di vista strettamente storico-didattico, il film presenta numerosi spunti di riflessione: la divisione degli italiani, dopo l’8 settembre, tra coloro che scelgono immediatamente la Resistenza e coloro che, sottraendosi a ogni forma di solidarietà, ricercano soluzioni individuali all’esigenza primaria di raggiungere la propria casa; il martellante proselitismo fascista, volto a spingere (anche attraverso allettanti incentivi economici) i soldati e gli ufficiali sbandati ad arruolarsi nelle file della RSI; il dilagante fenomeno della borsa nera, che si intreccia con quello della fame che attanaglia intere città e paesi; la generosità di tante famiglie contadine nel dare ospitalità e nel rifornire di abiti “borghesi” i militari fuggitivi; i rischi da esse coraggiosamente affrontati nel nascondere prigionieri alleati; la triste sorte degli ebrei, deportati nei vagoni piombati o costretti a darsi alla macchia. A riprova delle difficoltà incontrate, ancora all’inizio del nuovo decennio, dai registi che intendono affrontare temi “scomodi”, vale la pena ricordare che l’allora ministro Giulio Andreotti si rifiutò di mettere a disposizione della troupe due carri armati (che saranno, di conseguenza, costruiti con legno compensato).

Tra i personaggi più ambigui e controversi che emergono nella tragedia della seconda guerra mondiale in Italia, il maresciallo Pietro Badoglio occupa un posto di primo piano, incarnando il simbolo più evidente dello stato confusionale che investe il paese dopo il crollo del fascismo e l’8 settembre. Distintosi nella prima guerra mondiale, Badoglio aveva percorso una brillante carriera negli anni del regime, ottenendo il comando nella fase finale della guerra d’Etiopia (1935-36). Caduto in disgrazia dopo la vergognosa sconfitta sul fronte greco, era stato costretto alle dimissioni. Dopo la formazione del primo governo post-fascista e in seguito all’avvio delle trattative per l’armistizio con gli alleati, e alla fuga a Brindisi, si trasferisce a Salerno, dove, nell’aprile-giugno del 1944, dà vita a un secondo governo, che vede la partecipazione dei partiti antifascisti. A Badoglio, figura sgradita sia ai fascisti (che lo considerano un traditore) sia agli antifascisti (che lo accusano per il suo passato fascista e per le sue tendenze autoritarie), è dedicata La Badoglieide, una canzone partigiana che ripercorre ironicamente le tappe della carriera dell’ufficiale, dagli anni del grande feeling con Mussolini e del trionfale ingresso in Addis Abeba all’ “infame” e proditorio attacco a una Francia già piegata e lacerata dalle armate hitleriane; dall’umiliante sconfitta in Grecia (che, come si è detto, gli costa le dimissioni) al ritiro a Grazzano, il suo paese natale, in provincia di Cuneo, mentre nelle gelide pianure della Russia vengono decimati gli alpini dell’ARMIR (“Armata Italiana in Russia”); dalla direzione autoritaria impressa al primo governo post-fascista da lui guidato (con il generale Enrico Adami Rossi, comandante della difesa territoriale di Torino, che spara sugli operai in sciopero) alla “fuga ingloriosa” con il re e la corte verso Brindisi e il Sud liberato dagli anglo-americani. Secondo una testimonianza dello scrittore partigiano Nuto Revelli, le strofe della canzone sarebbero state composte da un gruppo di combattenti della Quarta Banda della formazione Giustizia e Libertà, tra cui lo stesso Revelli e l’avvocato Dante Livio Bianco, alle Grange di Narbone (Cuneo), nel corso di una breve pausa del grande rastrellamento effettuato dai nazifascisti nell’aprile del 1944. Per il loro contenuto anti-sabaudo e anti-badogliano, con alcune modificazioni, esse sono state cantate anche da reparti militari fascisti. Le strofe in italiano sono adattate all’aria di una canzone entrata nel repertorio goliardico (E non vedi che sono toscano). Il ritornello, in piemontese, appartiene invece alla tradizione locale. Dalla canzone si evince l’intransigente spirito anti-monarchico e anti-badogliano che caratterizza le formazioni partigiane di Giustizia e Libertà. Il suo contenuto radicale spiega anche l’ostracismo manifestato nei suoi confronti, ancora alla metà degli anni Sessanta, dalle forze della Destra più conservatrice: L’Unità (organo del PCI) del 9 aprile 1966 e la rivista Il Nuovo Canzoniere Italiano dell’agosto 1966 riferiscono infatti della denuncia e del processo subiti, in Romagna, da un giovane artista di Villanova di Bagnacavallo (Ravenna), Antonio Ricci, per aver cantato La Badoglieide in un suo spettacolo sulla Resistenza, suscitando l’irata reazione di un maresciallo dei carabinieri. L’anno successivo, tuttavia, in pieno clima pre-sessantottino, alla vigilia di un poderoso revival dell’antifascismo e della canzone di protesta, essa sarà rilanciata dal gruppo di cabaret milanese dei Gufi, che la inseriranno nell’album Non so, non ho visto, se c’ero dormivo (1967), attraverso il quale essa sarà conosciuta da un crescente numero di studenti, operai e militanti antifascisti.

https://youtube.com/watch?v=KzyWpxIEIG0&si=EnSIkaIECMiOmarE

O Badoglio, o Pietro Badoglio
ingrassato dal Fascio Littorio
col tuo degno compare Vittorio
ci hai già rotto abbastanza i coglion.

T’ l’as mai dit parei
t’ l’as mai fait parei
t’ l’as mai dit, t’ l’as mai fait,
t’ l’as mai dit parei
t’ l’as mai dilu: sì sì
t’ l’as mai falu: no no

[Traduzione in italiano:

Non hai mai detto così
non hai mai fatto cosi
non hai mai detto, non hai mai fatto,
non hai mai detto così,
non l’hai mai detto: sì sì
non l’hai mai fatto: no no]

tutto questo salvarti non può.

Ti ricordi quand’eri fascista
e facevi il saluto romano
ed al duce stringevi la mano 
sei davvero un gran porcaccion.

Ti ricordi l’impresa d’Etiopia
e il ducato di Addis Abeba?
Meritavi di prender l’ameba
ed invece facevi i milion.

Ti ricordi la guerra di Francia
che l’Italia copriva d’infamia?
Ma tu intanto prendevi la mancia
e col Duce facevi ispezion.

Ti ricordi la guerra di Grecia
e i soldati mandati al macello?
E tu allora per farti piu bello
rassegnavi le tue dimission.

A Grazzano giocavi alle bocce
mentre in Russia crepavan gli alpini
ma che importa, ci sono i quattrini
e si aspetta la buona occasion.

L’occasione è arrivata
è arrivata alla fine di luglioì
ed allor, per domare il subbuglio,
ti mettevi a fare il dittator.

Gli squadristi li hai richiamati
gli antifascisti li hai messi in galera;

la camicia non era piu nera
ma il fascismo restava il padron.

Era tuo quell’Adami Rossi
che a Torino sparava ai borghesi;
se durava ancora due mesi
tutti quanti facevi ammazzar.

Mentre tu sull’amor di Petacci
t’affannavi a dar fiato alle trombe
sull’Italia calavan le bombe
e Vittorio calava i calzon.

I calzoni li hai calati
anche tu nello stesso momento
ti credevi di fare un portento
ed invece facevi pietà.

Ti ricordi la fuga ingloriosa
con il re, verso terre sicure;
siete proprio due sporche figure,
meritate la fucilazion.

Noi crepiamo sui monti d’Italia 
mentre voi ve ne state tranquilli
ma non crederci tanto imbecilli
da lasciarci di nuovo fregar.

No, per quante moine facciate
state certi piu non vi vogliamo
dillo pure a quel gran ciarlatano
che sul trono vorrebbe restar.

Se Benito ci ha rotto le tasche
tu, Badoglio, ci hai rotto i coglioni;
pei fascisti e pei vecchi cialtroni
in Italia piu posto non c’è.

T’ l’as mai dit parei, ecc.


La foto è commons.wikimedia.org

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