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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

SE L'ECCESSO DIVENTA PAROLA D'ORDINE

eideLa sguaiata trivialità televisiva, spacciata per palcoscenico democratico, sfrutta le fragilità di ogni età e le trasforma in merci. E l’imbarbarimento trionfa sul senso civico. Per ora.

di EIDE SPEDICATO IENGO

 

          La sapienza latina del detto oraziano est modus in rebus (“c’è una misura nelle cose”), ovvero il gusto dell’equilibrio, della misura, della discrezione non pare essersi tradotto nel nostro paese in costume collettivo, forse perché, per dirla con il garibaldino Pasquale Turiello (giornalista amante della polemica e sottile analista sociale), il carattere tipico dell’italiano è quello della «soverchia scioltezza naturale degli individui» [1] che aderendo al «costume della massima insensibilità pratica alla voce del diritto e della pietà sociale» [2] non riconosce le categorie della misura e del limite. Difficile dargli torto.

         L’oggi, sebbene dalle valutazioni di Turiello sul neonato Stato italiano sia passata molta acqua sotto i ponti e la nostra società abbia attraversato numerose e diversificate fasi storiche, economiche, politiche, ideologiche, l’indole nazionale non sembra aver registrato sensibili e permanenti cambi di passo su questo aspetto. Tutt’altro. Il quotidiano sociale registra ancora e diffusamente la messa in mora della misura e l’attenzione spudorata ai suoi opposti: l’eccesso diventa norma comportamentale e guadagna in visibilità e seguito soprattutto in ragione dell’odierna comunicazione e della sua forza compressiva.

      In tale percorso un ruolo sicuramente non secondario è svolto dal totem permanente di ogni casa –la televisione- che rinforza questa tendenza, offrendosi in veste di palcoscenico democratico e liberale per esuberanze comportamentali, prassi grevi e triviali, gesti sguaiati, intemperanza verbale, eloqui esasperati e picareschi. Superfluo segnalare che quanto più cinismo e trasgressività veicola il piccolo schermo tanto più aumentano gli indici di ascolto e i profitti per l’industria televisiva. Per esempio, un programma televisivo di successo, rivolto ai giovani per trovare amicizie o, più correttamente, per esibire la loro omologata fisicità, ha promosso la versione del suo omologo senior, dando volto e voce a maturità e vecchiaie ridicole e patetiche e spazio a cicalecci insensati, corteggiamenti improbabili, complotti amorosi, diverbi risentiti. E ancora: se il programma Striscia la notizia va a caccia di veline, perché non attivarne il rovescio ed esibire le velone? Pensata a tavolino, la formula si è tradotta (nei primi anni del Duemila) in uno spettacolo da circo, in un’esposizione cinica e impietosa di corpi e volti appassiti alla ricerca di un attimo di visibilità, non importa se tra lazzi e risate.

     Natalia Aspesi ha annotato criticamente al proposito: «Non è vero che chi critica  le velone […] ha un’idea della vecchiaia che fa comodo, con l’anziana che sta a casa a fare la minestrina. Magari l’anziana non si fa strapazzare da Mammucari e sta a casa: ma ci sta a scrivere  romanzi di successo come Gina Lagorio, a studiare le stelle come Margherita Hack, a ricevere giovani colleghe per regalare loro la sua immensa e vivace memoria storica come Maria Pezzi, a leggere gli spartiti d’opera come Franca Valeri, a studiare i meccanismi cerebrali come Rita Levi Montalcini, a scegliere copioni teatrali come Alida Valli, a dirigere con pugno di ferro la sua azienda come Wanda Ferragamo: o, come me che, più che la minestrina, sta in cucina a fare un ricco minestrone alla milanese. Se mai fa comodo, molto cinico comodo, far finta di pensare e far finta di far credere che una novantenne è sexy come una quarantenne (lo era, dice una leggenda, la famosa cortigiana Ninon de Lenclos), che a ottanta si può essere vorticose ballerine di rumba come a trenta, e a settanta star bene in costume da bagno come a venti. Non è vero […]» [3].

È vero, piuttosto, che certa televisione (quella superficiale, urlata, volgare) non si fa alcuno scrupolo di assecondare o, meglio, di sfruttare le fragilità di quelle esistenze che, anche se solo per un attimo, cercano di uscire fuori (in questo caso) dall’esclusione dell’età, trasformandole in merci, in prodotti capaci di attrarre domanda e clienti. Inutile segnalare che questo tipo di intrattenimento che conferma la tesi di Turiello sull’uomo sciolto, accelera la rotazione delle cose, produce stravaganti e spesso umilianti flore sociali, mette in crisi orizzonti di senso e corredi valoriali, dimostra non poco cinismo nei confronti delle debolezze umane, che, comunque, hanno generato raramente nel tempo espressioni di rispetto.

All’alba dell’Ottocento, precisamente nel 1816, Stendhal fu disgustato a Milano da uno spettacolo barocco e repellente di trentasei nani alti sui tre piedi e mezzo, che rinchiusi dentro dei sacchi fino al collo, si disputavano il premio della corsa saltando a piedi giunti come ranocchi. «I capitomboli di questi poveri diavoli fanno ridere il popolo, e tutti sono popolo in questo Paese sensazionale, anche la graziosa signora Formigini. Stasera io mi sono lamentato di questa inumanità nel palco d’una signora celebre per la sua amabilità, la sua disinvoltura e la sua cultura. Ella mi ha risposto: “I nani in questo paese sono molto allegri. Guardate quello che offre dei fiori alle signore alla porta della Scala: ha lo spirito caustico”[…]» [4].

   Chiaramente le velone (prima richiamate) che «saltellano innocenti e orgogliose attorno a uno screanzato che dà loro del tu » [5], non sono i nani di Stendhal; eguali però sono l’impegno, la disinvoltura e la licenza di allestire occasioni di rozzo e volgare divertimento. Se, dunque, il passato ha offerto un ricco armamentario di spettacoli in cui il cinismo, il sarcasmo, l’irriverenza erano di casa, il presente non sembra essere da meno. È lo stesso imbarbarimento.

      Insomma, siamo arrivati alla parola d’ordine che nulla ha più successo dell’eccesso. Una gelatinosa compagine culturale –questa- che, nell’impastare disordinatamente uomini, donne, giovani, vecchi, politici, professionisti, intellettuali, conduttori televisivi, operai, artigiani, guitti, gente comune attraversa democraticamente classi, ceti, ambienti, confini regionali e nazionali.

       Siamo capaci (saremo capaci) di «ritrovare la ragion che fugge dagli estremi» per dirla con Molière, ovvero governare le nostre pulsioni, esercitare lo spirito critico, praticare la misura e, insieme, una salutare indignazione di fronte alle stupide, offensive, sguaiate proposte accennate? Il futuro ci riserverà una qualche restaurazione linguistica e di costume, oppure il processo liberatorio avviato sarà irreversibile? Personalmente mi auguro possa aver termine in tempi non geologici: sarebbe molto triste, infatti, se anche gli scenari del domani continuassero ad essere popolati da uomini e donne con addosso al posto degli abiti “cittadini” quelli caricaturali e grotteschi che un volta (neanche tanto tempo fa) erano riservati esclusivamente allo spazio rovesciato del Carnevale.

 


[1] Turiello P., Governo e governati in Italia, Einaudi, Torino, 1980 in Gambino A., Inventario italiano. Costumi e mentalità di un Paese materno, Einaudi, 1998, p. 20
Ibidem
3
  Lipperini L., Non è un paese per vecchie, Feltrinelli, Milano, 2010, p.140
Iengo F., (1999), Esecuzioni capitali e altre feste, Edizioni Noubs, Chieti, p.63
Lipperini L., op.cit., p. 141

 

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