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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

LA MATERNITÀ OSTEGGIATA

SPEDICATOQuando la maternità diventa un disvalore. Mentre la famiglia si va trasformando da istituzione sociale a contratto privato e  la visione paritaria dei ruoli di genere sosta in ambiti ancora limitati.

 

Nascere donna, scriveva Marina Terragni in un suo bel libro del 2007, non è mai stato visto come un “grande affare”. Il motivo è evidente: alle donne non sono mai stati dati il tempo e l’agio  necessari a costruire liberamente un mondo a partire dal loro modo di intendere la realtà[1]. Sebbene siano passati quindici anni da quella FIRMA EIDEconsiderazione, vistosi cambi di passo nella condizione femminile non sembrano tuttora registrabili.  Anche ai nostri giorni, nascere donna continua a non essere un grande affare. I motivi sono almeno due: vuoi perché nel quotidiano produttivo e familiare il rapporto tra i sessi continua ad essere claudicante e sbilanciato; vuoi perché i progetti di vita delle donne continuano ad essere intrappolati in arretrate, provinciali categorie-feticcio che ne ostacolano il cammino verso la parità con l’altro sesso. Lo prova, ad esempio, e in modo inconfutabile una circostanza: alle donne è stato consentito l’accesso al mondo del lavoro non perché vengano considerate una risorsa su cui investire, ma perché rappresentano una voce indispensabile all’economia di consumo.
Di qui l’indifferenza nei confronti del doppio peso che affrontano nello spazio pubblico e in quello privato; di qui la trasformazione della loro identità in una sorta di “pasta a sfoglia” tra casa e lavoro; di qui la difficoltà di gestire la quotidianità se si ha la ventura di diventare anche madri. In questo caso il percorso si complica: vanno superati ostacoli, attivati complicati equilibrismi per intercettare e neutralizzare le interferenze degli imprevisti e, non di rado, rivisitare e ridurre le ambizioni professionali e talora anche l’attività lavorativa.
Insomma, sebbene il tema della conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare costituisca uno degli obiettivi centrali delle politiche sociali, tuttavia perdura il pregiudizio che identifica nella figura femminile il soggetto deputato a svolgere il lavoro familiare, pur in presenza di impegni extradomestici. Ovvero, e detto in altro modo, persevera a livello, culturale, sociale e istituzionale il disconoscimento del valore sociale della maternità.
È per tali motivi che a questa espressione di sé molte donne arrivano tardi, quando e se ci arrivano, e la bassa fecondità è diventata uno tra gli aspetti demografici più MATERNITÀpreoccupanti del nostro Paese che registra il cosiddetto fertility gap, ossia la differenza fra il numero dei figli desiderati e la fecondità realizzata. Attualmente il numero dei figli per donna è inferiore a 1,3[2]. Questo dato inscrive l’Italia fra le nazioni che registrano i tassi di fecondità più negativi[3], sebbene, almeno a quanto rilevano recenti dati Istat, oltre la metà degli italiani desidererebbe avere due figli e quasi un quarto ne vorrebbe tre o più. Decisamente contenuta la cifra di coloro che desiderano il figlio unico (5,6%).  Dunque, l’esiguo numero di nascite non è legato allo scarso desiderio di genitorialità, quanto verosimilmente alla difficoltà della sua realizzazione[4].
A frenare tale propensione concorrono più fattori. Oltre alla scarsa efficacia delle politiche sociali per la famiglia, l’insufficienza dei servizi per l’infanzia, la carenza di quelli adeguati a supportare la donna lavoratrice (soprattutto se madre), l’aumento delle aspettative legate al benessere della prole che richiede non pochi investimenti, altre concause giocano un ruolo non secondario in tale processo. Innanzitutto, la disaffezione nei confronti del matrimonio come passaggio simbolico dall’adolescenza all’età adulta, evento legittimante l’accesso alla vita sessuale, fondamento indispensabile della procreazione; quindi il ridimensionamento della funzione simbolica della donna come espressione di maternità; poi l’interpretazione del concetto di coppia non più come proiezione esclusiva verso la discendenza quanto come spazio di autonomie progettuali; e, non certo da ultimo, l’impianto e la cultura degli attuali diversificati e plurali paesaggi familiari che indeboliscono il concetto di famiglia come istituzione sociale e cellula primaria per assicurare la continuità biologica della specie.
Documenta tale cambio di passo, per esempio, il matrimonio che sta sempre più trasformandosi in contratto privato, stipulato non nell’interesse della società e della famiglia intesa come unità, ma del singolo individuo per il raggiungimento della propria felicità e, quindi, revocabile se e quando questa finalità viene meno: di qui l’affermazione della famiglia negoziata a termine[5].
Non più riconoscibile in un insieme di vincoli collettivamente definiti, la famiglia contemporanea dismette il significato di istituzione con compiti, funzioni, ruoli definiti e si trasforma in un contratto privato o, meglio, in un aggregato flessibile da abitare. Ossia, si declina in base al principio del piacere e agli interessi del momento[6]. Non è da escludere che una tale filosofia di vita, incline a costanti rivisitazioni di sé, possa favorire dialoghi onesti tra i contraenti della relazione, ma parimenti non è da escludere che possa tradursi in contesti domestici targati precarietà e arrangiamenti di basso profilo.
In questo spazio poliedrico (più sfamiliare[7] che familiare) non è peregrino ritenere che il prezzo più alto lo paghino le donne, in particolare quelle impegnate in attività lavorative. Il motivo è lapalissiano. La logica che ritiene prioritarie le aspettative di autorealizzazione e di felicità dei singoli a fronte di quelli della comunità familiare alimenta nuovi disagi non tanto e non solo sul versante materiale quanto sul piano della qualità delle risorse relazionali, che «sono ancora più decisive delle EGOISMOrisorse materiali agli effetti del benessere delle persone e della coesione sociale […]»[8]. Ossia, compromette quelle risorse di cui ha particolarmente “fame” la categoria delle madri-lavoratrici, quantunque una nuova generazione di padri abbia preso consapevolezza della paternità come diritto-dovere nella conduzione familiare.
 Nonostante questi cambi di passo della mentalità maschile, tuttavia nello spazio familiare la visione paritaria dei ruoli di genere sosta in ambiti ancora circoscritti e limitati. Per esempio, a quanto è dato rilevare dai dati Istat relativi al periodo 2018-2019, «la percentuale del carico di lavoro familiare svolto dalle donne tra i 26 e i 44 anni sul totale del tempo di lavoro familiare nelle coppie in cui entrambi sono occupati è al 63%, ed è prevalentemente al Sud che gli uomini sono meno partecipi nel lavoro di cura»[9]. Superfluo chiosare un dato che si commenta da sé.
Dunque, sulle politiche di compatibilità tra lavoro di cura e lavoro per il mercato andrebbero investite ulteriori risorse, ma altrettante (forse di più) ne occorrerebbero sul versante sociale e culturale per rimuovere gli stereotipi di segno negativo che tuttora inquinano il rapporto fra i generi nell’area del lavoro e nello spazio domestico. È tempo di cambiare le regole. O, meglio, è tempo che la nostra società si ri-pensi e si impegni ad educare uomini e donne all’idea che otterrebbero per sé e per la società indubbi vantaggi se imparassero a pensare insieme, a riconoscersi reciproci, a sostenersi fra pari.

 

 [1] M. Terragni, La scomparsa delle donne, Mondadori, 2007, p.13.
[2] A. Minello, Non è un Paese per madri, Laterza, 2022, p.4.
[3] Superfluo sottolineare che il declino delle nascite destabilizza gli attuali già precari equilibri fra le quote senili e quelle giovanili e il rapporto tra popolazione attiva e non attiva.  
[4] A. Minello, op. cit., p.5.
[5] U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci, 2000.
[6] A. Danese, “Educazione e persona” in A. Danese, A. Rossi, Educare è comunicare. Note di Sociologia dell’educazione, Effetta Editrice, Cantalupa (To), 2001.
[7] Il neologismo sfamiglia è di Paolo Crepet.
[8] P. Donati, Quali politiche familiari, op. cit., p. 3.
[9] A. Minello, op. cit, p.129.

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