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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

LA FILOSOFIA DEL CACCIATORE

SPEDICATONell’attuale affermarsi di un ordine cannibale (disinvolto, arrogante, vorace, irriflessivo, lontano dall’equilibrio generale delle cose) è ancora possibile avere l’utopia nel nostro orizzonte sociale?

FIRMA EIDEÈ umano sognare un mondo prevedibile, sicuro, affidabile, purificato da inquietudini, affanni, disagi, e altrettanto umano inseguire l’idea di una società di progresso e giustizia. Il nome che si dà a questi desideri, tesi alla correzione di una condizione esistente, è quello di “utopia”.  Di norma le utopie vengono lette come evasioni fantasiose e chimeriche dalla realtà vissuta, e solo raramente in veste di stimolo alla formulazione di ipotesi per cambiamenti concretamente perseguibili. E, invece, proprio l’aspirazione a ciò che sembra impossibile da raggiungere può sostenere nella enunciazione di obiettivi più giusti, vivibili, lungimiranti, “possibili”. A provare quanto si dice sono quelle vite che, avendo espunto da sé la categoria del minimo sufficiente e rifuggendo dal quieto vivere e dal grigiore di una vita senza fremiti e senza passione, si impegnano in progettazioni verticali e di lungo periodo e puntano a mete all’apparenza difficilmente realizzabili.
Nella società che abitiamo, sempre più impersonale, incoerente, frammentata, privatisticamente ripiegata in sé stessa, viene spontaneo chiedersi se c’è ancora spazio per le utopie, oppure se l’attuale disincanto collettivo le ha completamente espunte dall’orizzonte sociale. La risposta, a quanto è dato rilevare, non può che essere negativa, perché il periodo storico che stiamo vivendo ha registrato il punto di non ritorno di un agire sociale che non tende alla promozione dell’umanità ma alla sua compressione in modelli comportamentali standardizzati, eterodiretti, colonizzati, guidati dalla mitologia PRESENTISMOdi una modernità «che governa la nostra società in modo sostanzialmente non dissimile da quello in cui la fede negli oracoli governava la società africana degli Azande» (F. Cassano, Modernizzare stanca, il Mulino, 2002, p. 7).
E non potrebbe essere diversamente. Il motivo risiede (almeno a mio avviso) in due circostanze non certo secondarie nella definizione dell’attuale assetto sociale: l’adesione alla logica del presentismo che abitua a vivere in un presente assoluto, disincantato, scarnificato, infecondo, scevro del senso del passato e del futuro; l’affermazione di un ordine cannibale, disinvolto, arrogante, vorace, irriflessivo, lontano dall’equilibrio generale delle cose.
L’uno e l’altro danno sostegno e udienza a quella lettura del mondo che Zigmunt Bauman ha identificato nella filosofia del “cacciatore”, ossia di colui «che non è minimamente interessato all’equilibrio generale delle cose, sia esso “naturale” oppure progettato e meditato. L’unico compito che i cacciatori perseguono è “uccidere” e continuare a farlo, finché i loro carnieri non sono colmi fino all’orlo. Sicuramente non ritengono loro dovere garantire che la disponibilità di selvaggina nella foresta possa ricostituirsi dopo (e malgrado) la loro caccia. Se i boschi sono rimasti senza selvaggina a seguito di una scorribanda particolarmente proficua, i cacciatori possono spostarsi in un’altra zona UTOPIA1relativamente intatta, ancora pullulante di potenziali trofei di caccia. Può darsi che a un certo punto, in un futuro lontano e ancora indefinito, il pianeta rimanga a corto di boschi ancora ricchi di selvaggina; ma se così sarà, loro non lo vedono comunque come un problema immediato (e certamente non come un loro problema). Una prospettiva così remota, dopo tutto, non mette a repentaglio i risultati della caccia in corso, o della prossima, e perciò non obbliga in alcun modo me, singolo cacciatore fra tanti, o noi, singola associazione di cacciatori fra tante, a ragionarci su e tanto meno a fare qualcosa in proposito» (Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido, Laterza, 2007, p. 114).  È lapalissiano che un mondo popolato da cacciatori (che peraltro si ritengono parametri di perfezione) non può che tradursi, in tempi più o meno lontani, in un deserto. Chi fa sua questa logica non possiede, infatti, il senso della storia, non conosce il passato, non immagina il futuro, si concentra esclusivamente sul presente e sul proprio egoistico e incolto individualismo, peraltro lontanissimo dall’idea che qualcosa non funzioni.
Al profilo del cacciatore andrebbe, pertanto, sostituito quello del giardiniere che, essendo guidato dalla necessità di elaborare un disegno ideale per governare la natura e la realtà, ritiene un suo dovere intervenire per impedire che il disordine prevalga sull’ordine. Ovviamente il giardiniere per raggiungere questo obiettivo sa di dover necessariamente selezionare e dividere le erbacce (che non si accordano con l’armonia del suo disegno) dalle piante che, invece, vanno curate. C’è pertanto chi sospetta del progetto del giardiniere che apre ad alcuni e vieta ad altri l’ingresso al giardino. Ma per replicare ad una realtà profondamente cinica, violenta, arrogante che allarga a dismisura legioni di sradicati, forme di risentimento, integralismi reattivi è d’obbligo selezionare per allestire composizioni impensabili e inedite del giardino sociale. Per esempio, se in questo ci si limitasse anche solo a coltivare la nozione di responsabilità morale (che poggia sull’equilibrio tra diritti e doveri) e poi a socializzarla e praticarla nei suoi contenuti, non appare inverosimile che (a cascata) assetti sociali più equanimi e virtuosi vedrebbero la luce; le dismisure non avrebbero possibilità di generarsi; incontri alla pari nascerebbero fra diversi; esperienze “altre” offrirebbero ossigeno al pensiero.
Se si riuscisse in questa rivoluzione culturale prima che strutturale, si potrebbero progettare azioni in una prospettiva di lungo periodo, ridurre lo spazio delle incertezze, disegnare la mappa di ambienti più ospitali e confortevoli per l’umanità tutta. Insomma, si potrebbe promuovere lo stadio della modernità riflessiva, la sola adeguata a rifondare l’agorà e correggere gli esiti delle azioni che non reggono più le sfide che il mondo globale ha, paradossalmente, rivolto contro sé stesso.
Ma per raggiungere questi obiettivi dobbiamo (dovremmo) cominciare a chiederci se siamo disponibili a prendere le distanze dalle mitologie negative in cui stiamo annegando, cominciando, per esempio, a discutere intorno al nostro mondo dato e alle sue tante zone d’ombra: alle espressioni di socializzazione disordinate e incoerenti, ai paradigmi valoriali supponenti e boriosi, al nostro modello di sviluppo «segnato da una diffusa consunzione ambientale, da una crescente anomia sociale, da una dilagante irresponsabilità individuale, da una temibile corruzione politica, da una dolorosa compressione dei diritti individuali e sociali» (G. Bongo, Introduzione in E. Spedicato Iengo, G. Bongo, Società artificiale. Dal consumismo alla convivialità, Franco Angeli, 2015, p.10).
Sono utopie senza futuro queste considerazioni? Forse. Invitano, comunque, a soffermarsi sul tempo fondamentalista e pericoloso che stiamo vivendo.

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