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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

AB OVO

EIDE2Presente nei miti, nelle favole, nei proverbi, l’uovo contiene un universo simbolico che esprime luce e vitalità. Ma anche elemento di dialogo tra l’al di qua e l’al di là; tra il presente e l’eterno ritorno.

di EIDE SPEDICATO IENGO

 

Alcuni elementi nascono con il “positivo” incorporato: l’uovo, ad esempio. La sua forma elegante, essenziale, perfetta, lo ha associato fin dall’alba del mondo al mistero della creazione, alla ciclicità dell’eterno ritorno, all’unità primordiale dell’essere. Il mito dell’uovo, che dà origine alla vita, nasce (almeno a quanto è dato conoscere) in Mesopotamia, ma è presente in molte cosmogonie e nelle tradizioni più antiche. Dell’uovo si parla nella riflessione vedica in India e nella tradizione orfica in Grecia; ha posto fra i miti della Cina arcaica e del Giappone; è annoverato fra quelli della civiltà egiziana: lo testimonia il dio Ptah rappresentato mentre forgia l’uovo della creazione del mondo[1]. È centrale nella cena della Pasqua ebraica per ricordare i sacrifici offerti nel tempio di Gerusalemme e la precarietà del destino umano. Nella celebrazione cristiana della Resurrezione, l’uovo è il simbolo di una nuova vita.
Tuttavia, l’uovo non abita solo le zone del sacro e del mistero: è un elemento “democratico” che, per esempio, ha posto negli aneddoti. È famoso, al proposito, quello attribuito a Cristoforo Colombo e poi rimasto proverbiale. Pare che al ritorno dal suo viaggio nelle Americhe, invitato ad una cena in suo onore dal Cardinal Mendoza, egli fu fatto oggetto di critiche da parte di alcuni gentiluomini spagnoli, i quali minimizzavano l’importanza della sua impresa. Chiunque, sostenevano costoro, avrebbe potuto scoprire il Nuovo Mondo. In risposta a coloro che avevano espresso tale giudizio, Colombo chiese di cimentarsi in un’operazione altrettanto facile: mantenere in posizione eretta un uovo sul tavolo. I tentativi sebbene numerosi, non raggiunsero il successo. Ritenendo che il problema fosse insolubile, i presenti non senza malizia chiesero all’ammiraglio genovese di tentare anch’egli. Questi, garbatamente, praticò una lieve ammaccatura all'estremità dell'uovo nella parte più larga, fornendogli una base di appoggio che lo mantenne dritto. Alle proteste, giustificate dalla motivazione che chiunque avrebbe potuto compiere la stessa operazione, Colombo rispose: «La differenza tra me e voi è legata al fatto che voi avreste potuto farlo e io invece l'ho fatto!»[2].
Ma l’uovo recita il ruolo di protagonista anche nelle massime morali e nei modi di dire. Chi non ricorda la “gallina dalle uova d’oro” di Esopo che invitava a non nutrire l’avidità che porta con sé solo perdite e dispiaceri?[3]  Stesso impianto e stessa morale si rinviene nel proverbio “meglio un uovo oggi che una gallina domani” che esorta alla filosofia dell’accontentarsi nell’immediato per non rischiare di perdere tutto in futuro. Mentre il detto “a giocare con le uova si fa una frittata” avverte intorno alla necessità di procedere con cautela quando si ha a che fare con questioni delicate. “Cercare il pelo nell’uovo”, “camminare sulle uova” o “rompere le uova nel paniere” stanno invece a segnalare, rispettivamente, tre differenti tipologie comportamentali: una prassi molto zelante che sfiora la pignoleria nel primo caso; un atteggiamento molto prudente nel secondo; un modo di agire decisamente intrusivo e poco accorto che ostacola l’operato altrui, nell’ultimo.
L’uovo, dunque, abita molti spazi. Non casualmente, ha posto anche nella logica della semplicità rettilinea della cultura popolare, che veicola il pensiero di gente che non sapeva leggere, scrivere e far di conto ma aveva dimestichezza con la saggezza, con quel sentimento povero che dà forma alla vita e a farle capire le proporzioni. In un inventario sui proverbi dialettali abruzzesi, Lia Giancristofaro ne raccoglie alcuni che qui ripropongo per esteso[4].
«A chi je fèta lu gallo, a chi nun je fèta manco la gallina». (Ci sono soggetti a cui l’uovo lo fa perfino il gallo, altre a cui non lo fa neppure la gallina). Fuor di metafora: ci sono persone fortunate che ottengono anche l’impossibile; altre invece che non riescono a raggiungere neppure gli obiettivi più ovvi e prevedibili. «La gallìne fète l’ove, e a lu galle je dòle lu cùle» (La gallina fa l’uovo e al gallo duole il sedere). Questo proverbio suggerisce che non è raro imbattersi in soggetti lamentosi che sottolineano costantemente la fatica impiegata per raggiungere obiettivi che altri, invece, ottengono con discrezione; ma indica anche la circostanza nella quale c’è chi si prende i meriti per un lavoro svolto da altri che cadono nell’anonimato. «Pe’ ffa’ la frittata ha da rompe’ l’ove» (Per fare la frittata devi rompere le uova). Vivere significa scegliere, e la scelta spesso è impegnativa, può comportare anche delle perdite. Questo proverbio esorta, perciò, a non eleggere la cautela a principio dominante, se non si vuole essere destinati all’inazione.
Ma l’uovo ha fatto da sfondo non solo a valutazioni sul quotidiano. È stato pretesto anche per vagabondaggi “filosofici”. Non casualmente, e non senza una punta di ironica polemica nei confronti di certe “verità” del suo tempo, Jean de La Fontaine in un sermone a Madame de la Sablière, a proposito della capacità degli animali di “pensare”, fa recitare all’uovo la parte di inconsapevole comprimario in un siparietto i cui protagonisti sono due topi e una volpe. Il passo è il seguente:

 È l’uom il singolare  e sacro altare in tutto l’universo/ Sta ben ma di converso/ ha tanta l’animal vitalità/ che l’albero non ha./ Andavano due topi per il pranzo/ quando trovano un ovo sulla via./ Un ovo basta ai topi che non potrebber divorare un manzo/ e pieni d’appetito e d’allegria/ stanno per rosicchiar ciascuno l’ovo dalla sua parte/ quando arriva un terzo incomodo, la Volpe./ Come salvar e riparar nel covo quell’ovo benedetto?/ Farne un pacchetto, prenderlo, portarlo, girarlo, trascinarlo?/ Sta bene, è presto detto/ ma poi vi aspetto a farlo/ Che fanno i topi? Mentre ancor la trista, feroce camorrista era lontana/per guadagnar la tana/ l’un d’ essi sulla schiena si sdraiò/ e l’ovo strinse in un soave amplesso/ e dopo un po’ d’affanno per la coda il secondo lo tirò/ Or voi ditemi adesso che queste bestie spirito non hanno[5].

Anche Collodi ha dedicato una pagina all’uovo, quando Pinocchio, rimasto libero dalle grinfie del carabiniere e rientrato a casa senza Geppetto condotto invece e senza sua colpa in prigione, ha fame e non sa come calmarla. Ecco il brano in questione:

Intanto cominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentì un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito. Ma l’appetito dei ragazzi cammina presto; e difatti dopo pochi minuti l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere e non vedere, si convertì in una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello. Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una pentola che bolliva, e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro […]. Allora si dette a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari di un po’ di pan secco, d’un crosterello, d’un osso avanzato al cane, d’un po’ di polenta muffita, d’una lisca di pesce, d’un nocciolo di ciliegia, insomma di qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla.  […]. Quand’ecco gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche cosa di tondo e di bianco, che somigliava tutto a un uovo di gallina. Spiccare un salto e gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un uovo davvero […]. Credendo quasi che fosse un sogno, si rigirava quest’uovo fra le mani, e lo toccava e lo baciava, e baciandolo diceva. ‘ E ora come dovrò cuocerlo? Ne farò una frittata? No, è meglio cuocerlo nel piatto! O non sarebbe più saporito se lo friggessi in padella? O se invece lo cuocessi a uso uovo da bere? No, la più lesta di tutte è cuocerlo nel piatto o nel tegamino: ho troppa voglia di mangiarmelo!’ Detto fatto, pose il tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa: mise nel tegamino, invece d’olio o di burro, un po’ d’acqua: e quando l’acqua principio a fumare, tac!.. spezzò il guscio dell’uovo, e fece l’atto di scodellarvelo. Ma invece della chiara e del tuorlo, scappò fuori un pulcino tutto allegro e complimentoso, il quale facendo una bella riverenza, disse: ‘Mille grazie, signor Pinocchio, d’avermi risparmiata la fatica di rompere il guscio! Arrivederla, stia bene, e tanti saluti a casa!’. Ciò detto distese le ali e, infilata la finestra che era aperta, se ne volò via a perdita d’occhio[6].

Se l’uovo di Collodi diventa occasione di sberleffo per Pinocchio, nel racconto coreografico L’uccello di fuoco di Mikhail Fokine, musicato da Igor S. Stravinskij, l’uovo si trasforma, all’opposto, nello strumento indiretto di un percorso iniziatico che vede trionfare il Bene sul Male. In questa favola, tuttavia, l’uovo veste abiti diversi da quelli che la tradizione ci ha consegnato: dismette quelli positivi e vitali che rinviano all’eterna rinascita, all’equilibrio, all’armonia e assume quelli dell’oscurità, delle tenebre, del negativo. Nel racconto di Fokine, l’uovo, infatti, è il contenitore di un’anima malvagia, quella del demone Katscei, perfido carceriere di principesse che tramuta gli uomini in pietra, la cui distruzione è indispensabile per cancellare il potere del Male. L’uovo, ovviamente, verrà rotto e il Bene ristabilito.  A compiere l’impresa è lo zarevic Ivan con l’aiuto dell’uccello di fuoco[7].
È stato detto che nella trama della continuità biologica, l’uovo come sostanza vitale, simbolo della luce solare, elemento di un universo simbolico svolgeva un forte ruolo espressivo. Nel sistema alimentare tradizionale era presente, per esempio, nei pranzi che festeggiavano l’ingresso nella vita: la minestra e i dolci a base di uova nel pranzo battesimale indicavano l’analogia fra vita nuova, rinascita e trionfo sulla morte. Non mancava nella festa solstiziale del Natale, vissuta come momento magico dedicato ai presagi e alla ventura attinti alla cenere del grande ciocco; era elemento fondamentale nella mensa di Pasqua, come simbolo del Cristo risorto e della speranza nella futura resurrezione dei fedeli in Lui[8].
 Nella liturgia della mensa l’uovo, dunque, ha sempre assunto una funzione evocativa, ed è stato segno di appartenenze di classe, di identità sociali, di canoni etici. Nel tempo ha, ovviamente, attraversato alterne vicende che l’hanno ora esaltato ora marginalizzato. Per esempio, quando a Roma, in epoca imperiale, si invocava il ritorno alla semplicità e alla frugalità delle mense contro l’abuso di sapori, di conserve, di spezie, l’uovo da ingrediente di sfondo di portate ricche, bizzarre, eccessive, sofisticate, ha recitato ruoli non secondari in convivi eleganti e misurati. Lo attesta, per esempio, Plinio il Giovane, quando rimproverando l’amico Settimio Claro che aveva disertato una sua cena per un banchetto più sontuoso, elenca le pietanze semplici e buone che aveva fatto preparare. Questo il menù della serata: “[..]una lattuga a testa, tre chiocciole e due uova ciascuno, olive, bietole, un piatto di zucca, dei bulbi in aceto, crema di semolino al vincotto, e come dessert del vino mielato ben ghiacciato nella neve […] e frutta”[9].
Che differenza con il menù  sconsiderato (giunto fino a noi) di una fra le cene straricche di Lucullo, in cui le uova sode fanno da apripista ad un ricco antipasto (in cui figuravano ostriche e ricci di Capo Miseno, conchiglie di Taranto, tonno di Calcedonia, prosciutto di Gallia, chiocciole fritte con cipolle, olive, vino di Sorrento chiarificato con uova di piccione) che traghetta verso piatti di portata in cui storioni e murene si affiancano a pavoni e porchette pieni di beccafichi, polli arrosto, cinghiali, conigli, pasticci di fegato d’oca; per concludersi con un dessert in cui troneggiano nocciole, datteri, frutta, uva passa, miele, pasticceria !  [10].
Va da sé che in tempi targati da fanatismo antilipidico, come gli attuali, l’uovo da elemento virtuoso rischia di diventare una sostanza venefica. E infatti e non a caso, in una iniziativa semiseria proposta da una università italiana è stato addirittura celebrato un processo contro l’uovo. Ma i capi d’accusa sono caduti e l’imputato è stato assolto. Ciò non toglie, tuttavia, che nei suoi confronti alligni una certa, diffusa diffidenza. Non è certo nelle mie intenzioni iniziare una crociata volta a riabilitare l’uovo; mi piacerebbe però chiudere questa nota con due esortazioni. La prima: porre attenzione alla circostanza che un mangiare privo di mitologia equivale ad un puro nutrirsi. Pertanto, scardinare il significato del calendario alimentare rispetto all’organizzazione del tempo che i secoli hanno lentamente organizzato, vuol dire non solo perdere la capacità di distinguere tra la cucina sacra e quella profana, tra la domenica e il lunedì, tra il Natale e la Pasqua, tra il vuoto e il pieno ma anche inevitabilmente smarrire insieme con il “sapore” anche il “sapere” di quello che siamo. Secondo: non dimenticare il valore di comunicazione simbolica dell’uovo, ovvero il suo essere elemento capace di allacciare un dialogo non solo con i vivi, con i morti, con i nuovi venuti, ma anche con le potenze nascoste che governano l’al di qua e l’al di là, il prima e il dopo, il presente e l’eterno ritorno.
Questa brevissima riflessione sull’uovo, nel tempo sospeso e rallentato che stiamo vivendo, vuole (vorrebbe) invitare a prestare attenzione a quel passato che sapeva vestire di magico anche gli oggetti più abituali, arricchendo lo spazio dell’immaginazione e di quei vagabondaggi emotivi che sono il sale della vita.

[1]  Cfr P. Manasse, L’uovo di Pasqua. Magia & simbolo, Fratelli Palombi Editori, 1986, p. 10.
[2] La fama dell’«uovo di Colombo» è, dunque, legata a soluzioni inaspettate e risolutive e precisa che se molte azioni possono essere fatte da tutti, non è altrettanto facile farle per primi.
[3] “Un tale possedeva una bella gallina che faceva le uova d’oro. Pensando che avesse un mucchio d’oro nelle viscere, egli la uccise, e trovò che dentro era fatta come tutte le altre galline. Così, per la speranza di trovar la ricchezza tutta in una volta, restò privo anche del suo modesto provento. Contentatevi di quello che avete e guardatevi dall’essere insaziabili”. Questo stesso testo è stato riproposto da Jean de La Fontane J. de La Fontaine, La Gallina dalle uova d’oro, libro V, favola XIII.
[4] L. Giancristofaro, Galateo abruzzese. Proverbi dialettali in Tv, Rivista Abruzzese Editrice, 2009, pp. 34, 50, 68, 95.
[5] J. de La Fontane, Sermone a Madame de la Sablière, Libro X.
[6] C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, Editrice La Scuola, 1950, pp. 23-25.
[7] Enciclopedia della musica, Garzanti, 1996, p. 1239.
[8] Non casualmente i dolci pasquali, che si espandono in orizzontale ed esprimono forme dilatate e gonfie (la “pagnotta”, la “pupa gravida”), sono il segno inequivocabile di auspici di fecondità e di rinnovamento. Cfr. su questo argomento, P. Camporesi, La terra e la luna, Il Saggiatore, 1989, p.217.
[9] N. Valerio, La tavola degli antichi, Mondadori, 1989, p.158.
[10] Idem, pp.184-185

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