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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

LO SPAZIO, LA PAROLA E GLI OCCHI GENTILI

eideLa vita sociale come palcoscenico e la recitazione dei ruoli. Dipende anche dai nostri occhi saper trovare grazia e gradevolezza nel vivere quotidiano.


di EIDE SPEDICATO IENGO

   

Recitare o anche solo saper parlare in pubblico è operazione non facile: curare il timbro della voce, la postura, il lessico più adeguati a promuovere ascolto ed attenzione, intuire gli umori del pubblico richiedono competenza, perizia, mestiere. Lo sanno bene gli attori (soprattutto quelli “di rango”) che ad ogni recita sanno approntare con cura gli espedienti più congrui ad entrare in scena. Ma anche vivere in società significa calcare quotidianamente un proscenio, recitare una parte, seguire un copione, qualche volta improvvisare le battute, spesso gestire l’impaccio che inevitabilmente accompagna quando si entra in un contesto relazionale non conosciuto. Fra teatro e società, attore e cittadino esiste, infatti, un’analogia non solo metaforica[1]: la vita sociale è un palcoscenico, ogni ruolo è una recitazione, ogni azione sociale è una rappresentazione in cui ciascun soggetto non può sottrarsi al sistema di azioni/reazioni che inevitabilmente attiva in coloro con i quali entra in contatto. 
      Fra gli innumerevoli modi di replica ai gesti, alle azioni, ai comportamenti, lo sguardo (talora più delle parole) può “bocciare” o “promuovere”, confermare o smentire l’immagine che ciascuno ha di sé: ovvero, comunicare condivisione e, dunque, benessere oppure riprovazione e, dunque, malessere.
    Leo Buscaglia, un originale docente della University of Southern California e attento investigatore delle emozioni e dei sentimenti, nel suo Living, Loving & Learning del 1982, consigliava a chi temeva di presentarsi al pubblico di prendere un minuto di tempo, indugiare con lo sguardo nella platea e, prima di iniziare a parlare, cercare fra i presenti quelli che mostravano “occhi gentili”. Con tale locuzione, alludeva agli sguardi che sanno stabilire contatti positivi e invitano a continuare anche quando il discorso inciampa e si fa meno fluido: ovvero, si riferiva agli sguardi che sostengono e promuovono agio pur in circostanze e spazi occasionali e limitati nel tempo.
      Fuor di metafora: per Leo Buscaglia gli occhi gentili costituivano il pretesto per certificare l’esigenza di un cambio di rotta nella dimensione della relazionalità sociale. Ovvero, erano il dito puntato nei confronti di quello stile antropologico narcisistico, autocentrato, supponente, involutivo, indifferente, stupidamente avaro di interazioni feconde e, dunque, il pronunciamento a prendere le distanze da quelle tante, diffuse prassi incapaci di generosità, che popolano il nostro quotidiano e decompongono il tessuto sociale.

    Possiamo intendere come provocatorio o ingenuo il suggerimento dello studioso californiano, eppure non può negarsi che andrebbe aperta una breccia nella realtà sociale dell’oggi che appare inabile a confortare la vita. Frettolosi, voraci, sbrigativi, superficiali gli spazi quotidiani appaiono lontanissimi dal fronte che orienta a cercare e riabilitare l’esprit de finesse (per dirla con Pascal), ossia la finezza emotiva, la disponibilità all’intuizione, alla sensibilità, ai rapporti rassicuranti in opposizione alle condotte egoistiche, grette, rattrappite, stereotipate, intolleranti che impoveriscono interiormente e ingabbiano nella dittatura di un pensiero ruvido e senza sfumature.
     Sulla opportunità di coltivare il vocabolario di questo stile esistenziale, sarebbe da riflettere su un’insolita nota di John Locke a proposito di una ultracentenaria. Scriveva:
      «Oggi ho incontrato una certa Alice George, una donna che dice di aver compiuto 108 anni il giorno di Ognissanti dello scorso anno (1 novembre 1680). […] Cammina dritta anche se con l’aiuto di un bastone e, tuttavia, l’ho vista chinarsi due volte senza alcun appoggio. […] Il suo udito è ottimo e il suo olfatto è fine. […] Ha un viso grazioso come mai ho avuto occasione di vedere in nessuna altra donna anziana e l’età non l’ha resa né deforme, né decrepita»[2].    È lecito supporre che la signora George non fosse così graziosa come Locke la descrive: 108 anni sono un fardello grave da portare, anche se si è stretto un patto di alleanza con il tempo, come è verosimile pensare abbia fatto la signora George. Piuttosto, è lecito supporre che Locke disponesse di quella versatilità alla cura e alla premura capace di cogliere grazia e gradevolezza anche in un corpo segnato dalle tracce del tempo, ribaltando il pregiudizio che, fin dall’alba della riflessione umana, ha fatto deragliare la senilità femminile su sfondi di perdite, sottrazioni, mortificazioni, invisibilità.
     Sarebbe, dunque, da verificare quanto Leo Buscaglia suggeriva: forse ci si accorgerebbe che gli occhi gentili, anche se incrociano occasionalmente i nostri, attivano vibrazioni positive che timbrano di buono il quotidiano. Ovvero, arricchiscono chi li pratica e si trasformano in un dono per chi li riceve.

 

[1] R.Cantoni, Antropologia quotidiana, Rizzoli, Milano, 1975, pp.217-220

[2] Citato in P. Laslett, Una nuova mappa della vita, il Mulino, Bologna, 1992, p.197

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