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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

IL MONDO INTERCONNESSO

eideFra steccati, connessioni e nuove forme di convivenza. Una noterella di commento.

                   di EIDE SPEDICATO IENGO

 

 

        «Nessuno oggi è esclusivamente ‘una’ cosa sola. Etichette come indiano, donna, musulmano, o americano sono solo dei punti di partenza che, se per un momento vengono seguiti nell’esperienza vissuta, sono poi presto abbandonati. […] Gli esseri umani, proprio come forgiano la propria storia, forgiano anche le proprie culture e identità etniche. Certo, nessuno può negare la persistente continuità di tradizioni secolari, antichi insediamenti, linguaggi nazionali e geografie culturali, ma non sembra però esserci alcuna ragione, oltre alla paura e al pregiudizio, per continuare ad insistere sulla loro separazione e distinzione, come se fosse questo il fulcro stesso della vita umana. La sopravvivenza in realtà dipende piuttosto dai legami, dalle connessioni tra le cose; per usare le parole di T.S. Eliot, la realtà non può venir privata degli ‘altri echi [che] abitano il giardino’. È più gratificante -e più difficile-  pensare in modo concreto e comprensivo, contrappuntistico agli altri di quanto non lo sia pensare esclusivamente a ‘noi’. Ma ciò significa anche non cercare di dominare gli altri, non cercare di classificarli o di inserirli a forza in un ordine gerarchico e, soprattutto, non ripetere continuamente che la ‘nostra’ cultura (o il nostro paese) è la prima fra tutte (o che non lo è, per quel che conta)»[1]
         Quanto appena proposto segnala che in un sistema globalizzato come l’attuale e sempre più coinvolto in una sorte comune, disomogeneità, squilibri e contrapposizioni culturali, se non vengono correttamente governati, rischiano di far collassare l’insieme. Sia chiaro: non c’è società o gruppo umano che non mostri espressioni etnocentriche: la difesa della propria identità, che si traduce in differenza rispetto agli altri, è indispensabile per la sopravvivenza dello stesso gruppo o società. Siamo nell’ovvio. Tuttavia, l’ostacolo nasce quando il proprio senso di appartenenza ad un gruppo si trasforma in strumento di svalutazione di ogni altra legittima e differente identità. In questo caso l’etnocentrismo funzionale, indispensabile per la preservazione dei gruppi umani e delle società, si traduce in etnocentrismo patologico, segnato dalla sindrome della superiorità e dalla tendenza duplice al disprezzo e al dominio.
        Il problema dell’oggi (peraltro, a tutte le latitudini del globo) risiede, almeno a mio avviso, precisamente nel fatto che, a livello collettivo, è ancora limitata la consapevolezza che l’attuale configurazione del mondo, si è trasformata in un sistema interattivo in un senso del tutto inedito a fronte del passato. Un sistema in cui la trama della stabilità è percorsa ovunque dall’ordito del movimento umano, ovvero da quel variegato e complesso panorama di persone (turisti, immigrati, rifugiati, esiliati, lavoratori ospiti, ed altri gruppi e individui in movimento) che, dando vita al mondo mutevole in cui viviamo ed essendo in grado di influenzare la politica delle (e tra le) nazioni ad un livello mai prima registrato[2], richiede paradigmi conoscitivi e vocabolari dialogici del tutto nuovi per gestire le dimensioni, per la prima volta effettivamente planetarie, della convivenza umana.
       Vale ricordare, a questo punto del discorso, che in passato le relazioni tra gruppi separati erano non solo contenute, ma allacciate con grande fatica e mantenute con forte dispendio energetico. Per esempio, prima del XX secolo –come precisa per esempio Arjun Appadurai- le due spinte principali all’interazione culturale sistematica erano «le guerre (e i sistemi politici di larga scala cui a volte davano vita) e le religioni dedite al proselitismo che hanno talvolta, come nel caso dell’Islam, utilizzato la guerra come uno strumento legittimo della loro espansione»[3]. Se, dunque, un tempo,  le forze della gravità culturale sembravano evitare la formazione di comunità ad ampio raggio (religiose, commerciali o  politiche che fossero) e favorire «concrezioni di intimità e interessi su piccola scala»[4], oggi, la natura di questo campo gravitazionale si è tanto modificata quanto accelerata: i media  creano comunità senza il senso del luogo[5]; il mondo sempre più rimpicciolito oscilla fra omogeneizzazione ed eterogeneizzazione; gli scenari sociali non dispongono più di dimore empiriche e metafisiche e di un solido fondale cui appoggiarsi; le società opacizzano la propria autocoscienza collettiva e la propria capacità di azione politica; le configurazioni identitarie individuali e sociali (cioè il modo in cui la gente elabora un’idea di sé stessa e degli altri) mutano più velocemente di una volta perché non sono più ancorate ad un territorio specifico. Di qui, in particolare, la trasformazione dell’idea di cultura  da contenitore (di norme, valori e concezioni del mondo) in ambiente comunicativo nel quale «le culture tendono a instaurare rapporti via via più intensi di dialogo, conflitto e influenza reciproca»[6], e la pervasività di scenari sociali sempre più targati da climi di incertezza. 
       È per questi motivi che occorre (occorrerebbe) impegnare forti risorse nel governo delle dinamiche interculturali che l’universo bruscamente rimpicciolito dell’oggi ha posto sul tappeto, riequilibrando il rapporto tra sistemi culturali diversi, riscoprendo i concetti di equità e di equilibrio, praticando il giudizio critico che aiuta a non fare sconti per nessuno. 
      Quanto fin qui accennato orienta a porre un’inevitabile domanda: può la società attuale, inequivocabilmente orientata a diventare sempre più multiculturale, dar luogo a espressioni di buona convivenza fra diversi? Le risposte possono essere due (e fra loro antitetiche) a seconda del significato che si dà al termine multiculturalismo. Se questo viene inteso come una delle possibili configurazioni storiche del pluralismo, la risposta non può che essere affermativa. Il pluralismo, infatti, presuppone una società aperta e liberale che crede nella negoziazione fra le parti e crea le premesse per la pattuabilità fra soggetti diversi. All’opposto, se al multiculturalismo si dà il significato di un processo  che si limita ad accogliere le differenze senza impegnarsi a gestirne le inevitabili dissonanze, non possono che prodursi espressioni di conflittualità, intolleranza, anomia, disintegrazione sociale. Insomma, versioni di secessione culturale.
       Pertanto, ritenere la differenza culturale una risorsa e un arricchimento in senso lato (come spesso si sente ancora dire) è una formula tanto superficiale quanto impropria. Gian Enrico Rusconi ha precisato a ragione (e già da tempo) che tale approccio non promuove una integrazione differenziata quanto piuttosto una disintegrazione multietnica e, in aggiunta, lascia intendere «che la cultura sia un prodotto scambiabile sul mercato delle informazioni anziché un abito mentale radicato nei soggetti interessati»[7]. Il che non è. Chi crede che la differenza culturale si adegui e si esaurisca in un benevolo scambio di idee e di conoscenze biografiche, storiche e antropologiche, e non prevede l’eventualità che gli interlocutori possano trincerarsi nelle loro posizioni e irrigidire le proprie identità, cade in un portentoso abbaglio interpretativo.
       Far parte di una comunità multiculturale significa, pertanto, aver chiaro che il traffico culturale che qualifica la nostra contemporaneità  -non risolvendosi solo in una serie di prestiti e acquisti, ma comportando una loro continua riformulazione in base al contesto in cui le idee, i valori, le prassi vengono acquisiti o ceduti[8]-  domanda efficienti organismi di azione collettiva e strumenti giuridici, amministrativi, sociali e culturali pensati per promuovere sia la decodifica bidirezionale di logiche, norme e codici diversi, sia la progettazione di spazi di interlocuzione critica e reciproca in grado di far dialogare le differenze senza neutralizzarle.
     È d’obbligo, insomma, un cambio di passo che, ovviamente, non è semplice da allestire, né da gestire, soprattutto perché (almeno a quanto è dato rilevare) non sembra ancora diffusa, a livello collettivo, la volontà di procedere in tale direzione. Ne è prova il fatto che tuttora, nello spazio fra culture diverse, si oscilla fra due opposte tendenze, entrambe perdenti sul tema: la costruzione (metaforica e spesso reale) di barriere, fortificazione, feudi protetti, oppure l’adesione a utopistiche quanto impraticabili espressioni di solidarietà generica e generalizzata.
    Si riuscirà, in tempi non geologici, a promuovere forme di convivenza alla pari in realtà sociali in cui la cultura del confronto è ancora molto gracile? Un suggerimento (verosimilmente ingenuo) in questa direzione potrebbe offrirlo il mutualismo che, in biologia, è quel tipo di simbiosi armonica che consente alle specie conviventi di trarre reciprocamente vantaggi dallo stare insieme, oppure (guardando all’universo) il concetto di struttura planetaria etegonica [9]che permette ai pianeti di girare intorno ad una stella come compagni e non come nemici l’uno dell’altro. Forse, proprio ciò che è più lontano dal quotidiano dell’uomo potrebbe insegnargli a guardare meglio in sé stesso, a sospettare delle verità del proprio agire, a riconoscere le proprie patologie e le proprie parzialità, a prestare attenzione ai temi e ai fattori utili a promuovere nuove ricomposizioni sociali. 

[1] E.W. Said, Cultura e imperialismo, p. 367), pp. 367-368.

[2] A. Appadurai, Modernità in polvere, Melteni Editore, Roma, 2004, p.53.

[3] Idem, p.45.

[4] Idem, p. 46

[5] Idem, p. 47.

[6] U. Fabietti, “Il traffico delle culture” in Fabietti, Malighetti, Matera (a cura di), Dal tribale al globale. Introduzione all’antropologia, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p.171.

[7] G. E. Rusconi, “Retorica del multiculturalismo, religione e laicità”, in Melotti U. (a cura di), L’abbaglio multiculturale, SEAM, Roma 2000, p. 64.

[8] U. Fabietti, op.cit., p. 167.

[9] Con il vocabolo “etegonico” (dal greco etairos che vuol dire compagno) si intende il sistema planetario di una stella i cui componenti hanno imparato a muoversi insieme intorno al loro sole.  Cfr. S. De Carli, Intervista a Luigi Sertorio, Nicchia. L’anarchia dell’intelligenza, in “Communitas”, 9, 2006, p. 150.

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