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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

IL SETTIMO SIGILLO

Seconda parte delle riflessioni sulla pandemia attraverso film di Visconti, Bergman ed Herzog. La paura dell'atomica e la fine del mondo al maschile.

     

                     di NICOLA RANIERI

NICOLARANIERI1Secondo Flaubert, non si è affatto liberi di scrivere la tale o la talaltra cosa. Neanche il tema si può scegliere, e men che meno il soggetto. Poiché questo, quasi sempre, si impone da sé. Infatti, il segreto di un capolavoro sta nella corrispondenza fra il soggetto dell’opera e il temperamento dell’autore. Il temperamento però, sebbene abbia a che vedere pure con le vicende biografiche, non coincide con esse. Anzi le trasfigura, proprio mentre le comprende attraverso l’arte. La quale, invece di cedere all’autobiografismo in senso stretto o all’urgere di intenti morali e politici, tende a soddisfare ben altre esigenze: soprattutto quelle della coerenza stilistica e della “perfezione” poetica. Perciò la celebre frase Madame Bovary c’est moi! (forse mai espressamente pronunciata da Gustave Flaubert) non significa che lui si identificasse tout court con la protagonista dell’omonimo romanzo. Bensì con quel mondo poetico, con quell’insieme di umori, di elementi costitutivi del temperamento e della personalità artistica che forgiano immagini potenti, ambienti, situazioni, caratteri tali da originare una profonda osmosi fra soggetto e autore. Autore che resta invisibile e onnipotente entro la propria creazione. Si sente dappertutto e mai si vede.

Ciò si può dire pure di Ingmar Bergman.
I suoi temi, ancorché legati ai fatti biografici, non li rispecchiano naturalisticamente. Ricorrono sì in ognuna delle sue opere, ma senza che lui ne abbia preventivamente “scelto” il soggetto, poiché questo alberga già nel profondo di sé. Risulta, dunque, come “imposto” dalla propria inclinazione a scandagliare l’anima: quella specie di abissale buco nero che essa è diventata nell’epoca nostra, del disincanto. Così, mentre si dà a indagarla, il temperamento lo conduce a esprimere appieno le disposizioni del carattere e della sua multiforme personalità artistica che, con vivida immaginazione, crea indimenticabili personaggi entro i quali egli cela e rivela i mille volti della interiorità sua, e nostra.
Del resto Bergman (lo racconta lui stesso nell’autobiografia) ha imparato prestissimo a guardare dietro le scene della vita e della morte. Sin da piccolo ha fatto conoscenza con il diavolo. Gli ha dato forma concreta attraverso il gioco con la lanterna magica: la piccola scatola di latta con lanterna a petrolio e diapositive colorate di Cappuccetto rosso e il lupo. Un lupo immaginato come diavolo senza corna ma con la coda, le fauci vermiglie; come un palpabile quanto irraggiungibile rappresentante del male e della persecuzione.
Nato e cresciuto nell’austera famiglia repressiva di un pastore protestante, imparò a dare un volto ai mostruosi fantasmi dell’infanzia, interrogandosi sul Male e la Morte nonché sui terribili sogni suoi – e nostri – entro un vero e proprio gioco di ombre, che di continuo nascono e svaniscono. Così passò dagli incubi alla gioia, deliziandosi con immagini e suoni, per il desiderio ardente di diventare regista. In ciò sta la scaturigine della sua arte.
Coltivata per tutta la vita, essa culmina in quel testamento artistico, o tuffo all’indietro, che è il suo ultimo film. Un chiudersi del cerchio. Un tornare da vecchio – come il protagonista de Il posto delle fragole (1957) – alle radici dei propri sogni, della propria visione del mondo.
Fanny e Alexander (1982) si apre, infatti, con il teatrino delle marionette, da sempre amato ma: «Non solo per la gioia». E si chiude con le riflessioni tratte da Il sogno di August Strindberg: «Tutto può accadere. Tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su una base insignificante di realtà, l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni».
A Strindberg dunque – il primo dei suoi maestri o addirittura «il suo Dio» – Bergman si ispira: per le regie teatrali, per quelle cinematografiche, per il palcoscenico soprattutto, come autentica ossessione. Perché sul palcoscenico avviene la magia. Ovvero un qualcosa che accade davanti a chi – stupito! – guarda, ascolta e non riesce a spiegarsi cotanta “aura sacrale”.

Quasi nel medesimo anno – poco prima de Il posto delle fragole, e in un solo mese di lavorazione – realizza Il settimo sigillo (1957). Frutto, però, di lunghissima gestazione. Nel 1954 aveva scritto l’atto unico Pittura su legno, trasformato poi in versione radiofonica e spettacolo teatrale. Ma il tutto scaturiva da un affresco anonimo (del 1300) sul muro di una chiesa di campagna. Quel dipinto – raffigurante un cavaliere, il suo scudiero, un fabbro, un’indemoniata al rogo – aveva esercitato grande fascino su Ingmar giovinetto. In anni lontani, mentre seguiva il padre in missione pastorale nelle chiese svedesi, le volte, le finestre dipinte, i muri affrescati gli apparivano come acquarî senza alcuno spazio libero. Dappertutto traboccavano di: Gesù e i ladroni, Maria appoggiata a Giovanni, la Maddalena peccatrice; santi, profeti, angeli e demoni; diavoli addetti alla cottura di peccatori precipitanti a capofitto nelle fiamme; Adamo e Eva sorpresi nella propria nudità dall’occhio di Dio sbirciante da dietro l’albero proibito.
Giunto poi «nel mezzo del cammin» della sua vita (quando i conflitti con il padre si attenuano, la giovinezza se ne va e la strada intrapresa si fa irreversibile) Ingmar è ancora in qualche modo legato alla devozione dell’infanzia. Ma sente di aver maturato nel frattempo un più sicuro realismo nonché la capacità di scindere il dissolversi della teologia dal permanere del sacro, poiché l’essere umano in sé reca una sua santità che non necessita di spiegazioni ultraterrene. Tuttavia la paura della morte non passa, appunto perché accentuata da una religione che promette la salvezza dalla morte e dalle brutture del mondo. Cos’altro annuncia il Libro che conclude il Nuovo Testamento, se non la redenzione dal peccato originale?L’Apocalisse è un insieme di profezia e rivelazione del fine ultimo o dell’agire di Dio nella storia, quale trionfo dell’Agnello-Cristo: simbolo stesso della vittoria del Bene sul Male.
Allorquando la settima tromba suona, av-viene l’epifania della luce; appare il tempio celeste; e l’arca dell’alleanza costituisce il nuovo patto tra Dio e l’umanità. Finalmente il Signore è silenziosa presenza – piena e definitiva – in mezzo agli uomini riappacificati nella Gerusalemme di pace e vita radiosa.

Del Libro di Giovanni, Bergman riprende la struttura: il susseguirsi di visioni profetiche. Ne cambia però il senso, fermandosi al suono della terza tromba e quindi al cadere di una grande stella di nome Assenzio: il veleno. Sicché, invece del Bene, trionfa la inesorabile Morte in un mondo assurdo e desolato ove «nessuno può vivere, sapendo che tutto è niente».
Questo va pensando il cavaliere Antonius Block, aggirandosi nel «lutto del cielo» e nel «silenzio di Dio», che ha abbandonato gli uomini. E questo sembra dirci l’ateismo religioso del regista ispirato, anche, dai Carmina Burana di Carl Orff. Quei canti composti da chierici vaganti durante anni di peste e di guerre sanguinose, allorché gente senza dimora si univa in grandi schiere – pure di flagellanti – spostandosi di paese in paese. C’erano diaconi, monaci, preti e giullari. I pochi che sapevano scrivere componevano canzoni da presentare nelle feste religiose e nei mercati.

Il settimo sigillo, rappresentando la peste del 1300, riflette sulla paura dell’atomica nel tempo della Guerra fredda. E riecheggia gli ossessivi incubi provocati nel giovinetto Ingmar dalla suggestione della Morte, immaginata tramite le raffigurazioni medioevali. Sicché la luce, che intride il bianco e nero del film, filtra attraverso le molte gradazioni del grigio, entro una composizione di piani strutturati secondo un preciso impianto teatrale e una vera e propria stilizzazione di gesti e avvenimenti che assumono  un forte valore evocativo-simbolico.
I simboli di cui il film è pregno non risentono di alcuna pesantezza intellettualistica e i personaggi sono tutt’altro che oleografici. Jof, Mia e il bambino alludono sì alla sacra famiglia, ma soprattutto al Sacro come essenza stessa della vita – che in sé reca bene e male indisgiungibili. La loro semplicità, il vivere gioioso e il quasi ingenuo visionarismo del saltimbanco Jof colpiscono profondamente il cavaliere; lo rinfrancano dal suo defatigante arrovellarsi sul nulla o sul silenzio di Dio. E ciò è solo l’inizio del successivo percorso bergmaniano, che da Il posto delle fragole in poi sarà tutto terrestre, sempre più lontano dalle paure infantili e dai cupi fantasmi dell’al di là, per approdare man mano a una salutare visione razionale. E però in questa storia – che sembra la metafora della fine del mondo – prevale ancora una razionalità dilemmatica, pervasa di un angoscioso interrogarsi amletico. Non a caso, la penultima scena si svolge nel chiuso di una sorta di castello di Elsinore. Dove, nel cuore della notte più nera, sopraggiunge infine la Morte. Ineluttabile com’è sin dal principio.

Appare infatti, in riva al mare, al cavaliere appena tornato sul patrio suolo. Ma, mentre questi vorrebbe sapere tutto prima di morire, la Morte né risponde alle domande né ama il sapere. Cieca esecutrice del Fato, essa ha le sembianze di un uomo con un nero mantello, con un bianco volto di teschio e di clown. Accetta però di giocare a scacchi una partita – anche metafisica – con Block. Il quale, pur consapevole di dover perdere, sfida la Morte per sentirsi vivo ancora per un po’. E cerca pure di distrarla affinché la famiglia del saltimbanco possa sfuggire alle sue grinfie. Ѐ questa la vera crociata: non combattere più per liberare un nudo sepolcro, ma per sentire il divino nell’umano, mentre la punizione celeste va seminando lutti e stragi preannuncianti il giorno del giudizio.
Tanto il cavaliere – sebbene assillato dai dubbi metafisici – è nobile e persino affettuoso con “i puri di cuore”, quanto il suo scudiero Jӧns si mostra dissacratorio di ogni santità; sarcastico,  arido materialista, soprattutto durante il blasfemo dialogo con “l’imbrattamuri”, il pittore di immagini sacre. Tuttavia Jӧns così arido non è. Nonostante sembri un plebeo a cui il mondo appare senza senso e senza scopo, è anche lui un cavaliere, difensore della ragazza muta o di tutti coloro che subiscono ingiustizie e prepotenze. Il saltimbanco poi – pagliaccio e visionario – è la fantasia in persona. Come lo sono gli altri attori degli itineranti spettacoli circensi e teatrali: ricolmi di creatività, illusionismo ironico, doppi sensi e parodia della finzione scenica.
Tutte insieme queste figure sono maschere dei possibili alter ego del regista. Della sua poetica sfaccettata ma coesa, per via di un soggetto fortemente sentito. Nel quale i simboli, i concetti, le allegorie giammai inaridiscono in schematismi astratti, poiché risuonano in accordo profondo con il temperamento. Proprio in virtù di questa reciprocità fra soggetto e temperamento il regista può immaginare un Medioevo storico e  trasfigurato. Entro cui gli individui non solo stentano a sopravvivere ma, in preda alla paura di morire, oscillano tra Dio e Satana, Speranza e Disperazione. Come capita in genere nelle catastrofi; all’opposto delle situazioni “ordinarie” in cui si tende a dimenticare di essere dei mortali.
Di tutto ciò, oggi, quasi nulla rimane. Guai a essere apocalittici o a parlare di morte. I morti, della odierna pandemia, li contiamo soltanto.
Quando tutto è calcolo statistico e sfrenato economicismo, altro non resta che un farmaco per ripartire scattanti, ginnici, più ottimisti che mai. Non vi sono alternative allo sviluppo frenetico, al correre incontro alla catastrofe. Ma guai a nominarla.                      
Bergman, invece, ne parla con forza. Fa dire a Albertus Pictor (l’imbrattamuri) il perché lui dipinga la danza macabra dentro una chiesa: affinché ognuno, guardandola, veda la propria condizione. L’intero film è un lungo memento mori. Necessario più che mai, in un tempo in cui tutti sembrano aver dimenticato di essere niente altro che mortali. Perciò il regista – con il medesimo intento del pittore medioevale – narra la storia del ritorno a casa  dei due crociati (opposte facce di una stessa medaglia) in viaggio nel flagello della peste.

L’attacco solenne è di grandiosa potenza. Sul quadro buio irrompe il coro dei Carmina Burana, che proseguendo rafforza la tetra luminosità di nubi tempestose, contro le quali si staglia una sinistra aquila predittrice di guai ai terrestri. Indi una voce dal tono profetico, sovrastando il rumore del mare contro le rocce, inizia a dire quel che solo allo sguardo epifanico si rivela: «Quando l’Agnello aperse il settimo sigillo, nel cielo si fece un silenzio di circa mezz’ora e vidi …. ».
Non meno potente è la danza macabra finale. Nel chiarore dell’alba, il trasognato saltimbanco vede, lontano e di contro alle nuvole scure, l’austera morte (con falce e clessidra) condurre la lunga fila danzante verso un mondo ignoto. Così dice a sua moglie che, con sorriso bonario, lo stoglie ancora una volta dalle sue visioni. E lui, ubbidiente e felice, dirige il cavallo in direzione opposta: verso la continuità della vita. A cui il regista guarda con simpatia, come a voler seguire idealmente il carrozzone degli artisti itineranti, dopo aver narrato un mondo che sembra alla fine.
Un lieto fine dunque!?
Forse! Ma non per i maschi.
Perché non si tratta della fine del mondo, bensì di un mondo: quello al maschile.
Ed è ciò a cui allude la sequenza che precede la danza macabra.
Quando la nera notte volge al termine, nel castello del cavaliere, e poco prima che la Morte ineluttabile sopraggiunga per lui e i suoi amici seduti attorno al tavolo davanti al camino, vi è un istante in cui (per sovrapposizione di immagini) dentro la testa di profilo di Antonius Block si incastra il volto della ragazza muta. Come se lei ne comprendesse i pensieri più reconditi. Quelli che nel frattempo Karin (la moglie del cavaliere) legge, per tutti loro, dal Libro dell’Apocalisse: «Quando l’Agnello aperse il settimo sigillo…».
Prosegue, con brevi pause, tra il sibilare del vento e uno strano bussare alla porta.
Finché si interrompe: «Dal cielo cadde una stella grande…si chiamava Assenzio».
La Morte è già dentro la stanza. Inorriditi, gli astanti tendono a confessarsi, tranne lo scudiero ribelle. Karin, invece, esclama accorata: «Silenzio!...Silenzio!». E la ragazza muta, guardando negli occhi la Morte: «L’ora è venuta!» o [nella versione originale] «Tutto è compiuto!». Così accoglie, serena, ciò che sta per accadere. Il suo volto scompare, lasciando apparire quello di Mia intenta a svegliare Jof. Che poi, vedendo di lontano i danzanti, condotti dalla Morte, ne dice anche i nomi. Ma fra loro, né Karin né la ragazza muta vi sono. Entrambe hanno dato voce – o leggendo o riacquistando la parola – ai tetri fantasmi di tutto ciò che l’uomo occidentale ha inventato (Dio compreso) per la pulsione di morte che da dentro lo possiede, rendendolo nemico perfino a se stesso. Le donne, invece, o ne sono quasi indenni o se ne possono in parte liberare, poiché mosse dalla pulsione di vita, entro cui vi è anche il morire, ma solo in quanto necessario al perenne divenire della vita.     

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