Vita di Pico della Mirandola, di Raphael Ebgi, Einaudi, Torino, 2024, pp.94, € 14,00.
di NANDO CIANCI
L’immagine del Rinascimento come epoca lieta ed armoniosa, in cui l’uomo – nel raggiunge vette altissime nel campo delle arti e del pensiero – inaugura una nuova era di libertà e di emancipazione dai secoli “bui” che lo precedettero, si affermò nel pubblico sentire segnatamente con l’opera di Jacob Burkhardt. L’uomo nuovo, nella interpretazione dello studioso svizzero dell’Ottocento, si librava al di sopra delle superstizioni, scioglieva il nodo compromissorio tra politica ed etica, liberava la propria individualità dalla prigione uniformizzante del medioevo.
All’interno di questa visione – che per oltre un secolo avremmo ritrovata nei manuali scolastici – la figura di Giovanni Pico della Mirandola rifulse come il genio capace di aprire all’uomo nuovi orizzonti di libertà e di possibilità di plasmare il proprio destino. Una figura scolpita nella storia culturale dell’Occidente soprattutto a partire dalla sua opera più conosciuta, l’Oratio de hominis dignitate, di cui si dirà.
Eppure il Rinascimento fu epoca anche tragica e di profonde inquietudini. Così come la celebrazione del genio di Pico – se di esclude qualche tentativo al limite del demolitorio[1] – ha spesso messo in ombra la complessità di un intellettuale che ha conosciuto anche lacerazioni interiori e il cui pensiero non era un corpo compatto e sempre uguale, avendo sperimentato tanto lo scontro con pressioni e poteri esterni quanto quello con la propria interiorità tormentata. Come da tempo vari studiosi vanno sostenendo.
A darci una lettura rispondente alla complessità del personaggio e a contribuire a restituircelo con il suo cammino umano sottratto alle lenti dell’agiografia è un agile, ma denso e approfondito, libro di Rapahael Ebgi, Il giovane meraviglioso. Vita di Pico della Mirandola, edito da Einaudi.
L’opera prende l’avvio da una ricerca di simbologie correlate alla vita di Pico e alla sua speculazione, come il prodigio che si narra fosse avvenuto al momento della sua nascita («una fiamma che si piegava in un cerchio» ad annunciare la fama di cui avrebbe goduto e la morte che lo avrebbe colto prematuramente, a soli 31 anni), le decorazioni che fece imprimere ai libri della sua biblioteca («simboli di cui Pico si servirà anche nelle sue future opere, e da cui il suo genio farà affiorare ciò che dimora in luoghi oscuri della vita»), i contenuti del ciclo pittorico racchiuso nel Salone dei mesi di palazzo Schifanoia, nella Ferrara in cui, giovanissimo, visse poco più di un anno, nel mentre vi dimorava anche Girolamo Savonarola, che forse non incontrò in quella occasione, ma che avrebbe avuto un ruolo assai rilevante nel suo futuro. Un insieme di corrispondenze che Ebgi coglie per delineare il clima culturale nel quale il “giovane meraviglioso” si formò.
Dalle pagine del libro emerge come costante, nella vita di Pico, la lotta fra gli appetiti della carne e i richiami dello spirito. Troviamo, così, il Nostro costantemente impegnato in studi severi e approfonditi, cui sacrificò molte notti e, contemporaneamente, non sordo ai richiami dell’amore e del piacere, tanto forti da spingerlo a imbarcarsi nell’avventura del rapimento della bella Margherita, conclusasi con un tragico fallimento che costò la vita a diciotto uomini che lo accompagnavano nell’impresa.
Intanto Pico proseguiva gli studi e iniziava le sue pubblicazioni con il Commento sopra una canzone de amore di Girolamo Benivieni nel quale propone una sua idea della bellezza. Di tutta la successiva produzione pichiana Ebgi ci dà puntualmente conto, così come del suo rapporto con la qabbalah, con la visione della perenne rivelazione, con «l’idea secondo cui tutte le tradizioni filosofiche e teologiche dell’Occidente e dell’Oriente condividessero un nucleo di verità comune, che ciascuna aveva espresso con un suo linguaggio, dietro differenti vesti simboliche e concettuali». Una riflessione che mette capo all’idea di un concilio dei dotti, intellettuali e teologi di tutta l’Europa, da tenersi a Roma. Per esso, com’è noto, Pico elaborò le sue 900 tesi, precedute dalla celebre introduzione dove assegnava alla nuova filosofia lo scopo di «indicare una via di pace tra le diverse tradizioni e religioni». Il sogno, insomma, di una concordia universale che fungesse da «premessa per una riforma dello scenario politico e sociale del tempo». Vari fattori, fra cui principalmente la concreta ostilità della Chiesa, fecero naufragare il progetto. Di esso restò famoso nei secoli proprio l’introduzione, che i posteri conobbero come Oratio de ominis dignitate, esaltata a lungo come manifesto della nuova umanità che prende nelle sue mani il proprio destino. Una lettura diventata «la chiave di interpretazione non solo del pensiero di Pico, bensì di tutta la sua epoca». Generando anche una sorta di equivoco, perché «la maestà dell’umano che l’Oratio propone è molto meno “accomodante” di quanto sia sembrato a molti». Tanto che Ebgi ne propone la lettura da una angolazione nella quale essa «pare oscillare tra i misteri ebraici e le grandi riflessioni sulle potenze del negativo (…), lontana in ogni caso dai miti dell’umanesimo moderno».
Condotte queste riflessioni, dalle quali il genio di Pico non esce sminuito, ma fatto risplendere all’interno di un complesso lavorio interiore, suo personale e aleggiante nello spirito del tempo, tutta la successiva produzione pichiana viene mostrata nella sua genesi e nella sua stesura concreta legate allo scorrere della sua breve vita. Così la sua immersione nella lettura e nel commento della Bibbia (di cui il risultato più noto è l’Heptaplus) nasce dal suo forzato appartarsi dai “venti di tempesta” suscitati dalle Conclusiones (le tesi di cui abbiamo detto) nel rapporto con la Chiesa e dall’assumere il ruolo di «filosofo in grado di immergersi nel mare delle parole, e di trovare in esse terre di saggezza». Addentrandosi anche in una lettura cabalistica che riserverà al lettore del testo di Ebgi stimolanti sorprese, oltre che incentivi ad approfondire.
La meditazione e il commento della Bibbia, il rapporto intenso, ma anche contrastato, con Girolamo Savonarola – che si riverberava anche nel contrasto tra la scansione monastica delle sue giornate, il sorgere di altri progetti filosofici (nei quali rinascevano le ambizioni di inediti traguardi e dimostrazioni) e la non spenta lotta tra carne e spirito – occupano tutta la seconda parte del libro, nella quale vediamo nascere, insieme ad altri scritti, il De ente et uno e l’opera immensa delle Disputationes adversus astrologiam divinatricem. Un cammino raccontato con l’abilità del narratore e analizzato con lo spessore dello studioso rigoroso. Così, sul finire, il libro, che ci dà anche conto della “fortuna” di Pico nei secoli successivi alla sua morte, ci accompagna nell’ «atmosfera cupa» aleggiante negli ultimi anni della vita del filosofo, nei suoi rapporti con Savorarola, nel suo spegnersi ancora gravato da sospetti di avvelenamento. Confermando anche nelle ultime pagine il valore di questo lavoro, che, andando oltre l’edificio interpretativo costruito da Burckhardt (da tempo messo in discussione da diversi studiosi) torna a «scorgere la novità e l’importanza filosofica delle tesi di Pico, da una parte, e a fissare senza disincanto le contraddizioni della sua antropologia dall’altra». Come dire che il genio di Pico rifulge non più per il manto dorato costruito intorno alla sua figura partendo dalla nobiltà dell’Oratio, ma per la intelligenza e la passione straordinarie con le quali si addentrò in quella che oggi chiameremmo la complessità dell’essere umano.
[1] Per esempio quello condotto da W. G. Craven in Pico della Mirandola, il Mulino, Bologna, 1984, nel quale mira soprattutto a sottoporre a vaglio critico quello che recentemente era stato scritto su di lui. Tale lavoro offre spunti problematici nell’interpretazione del pensiero di Pico, ma pretende poi di svelare «i suoi interessi concreti e le sue vere intenzioni».