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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

LE RAGNATELE MAFIOSE

ROBERTONegli anni Sessanta del secolo scorso l’Italia conobbe l’aggravarsi di piaghe ataviche e catastrofi annunciate. Le ripercorriamo attraverso alcuni film di Petri, Damiani e Martinelli.

 

 

FIRMA LEOMBRONI

Analizzando l’ “altra faccia” del miracolo economico italiano degli anni Sessanta, in particolare nel Sud della penisola, emerge, accanto alle piaghe dell’emigrazione, del trasformismo clientelare e del banditismo, una intensa recrudescenza del fenomeno mafioso. Altrettanto devastanti risultano, negli stessi anni, a causa dei numerosi interventi indiscriminati sulle coste e sulle montagne dell’Italia intera, gravi disastri ambientali, come quello che, nell’autunno del 1963, si abbatte sulla diga del Vajont, distruggendo il paese di Longarone, in provincia di Belluno.
La mafia in Sicilia, già indagata, per quanto concerne l’immediato dopoguerra, in Salvatore Giuliano e Lucky Luciano di Francesco Rosi, torna al centro dell’attenzione, per gli sviluppi che essa conosce negli anni Sessanta, in altri film d’autore. Tra essi A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri. Lo scenario è quello di un anonimo paese siciliano, in cui matura il duplice omicidio del farmacista, noto donnaiolo, e di un dottore. La comoda conclusione a cui i poliziotti pervengono è quella del delitto d’onore, ma la coraggiosa denuncia di un professore di Liceo porta al disvelamento di una chiara pista mafiosa. Il film si chiude con la violenta e solitaria morte del generoso protagonista, in efficace contrasto con le immagini delle festose nozze tra i colpevoli dell’omicidio. Il film è ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore siciliano Leonardo Sciascia, pubblicato l’anno precedente. In esso, l’analisi della mafia (che però non è mai nominata) appare alquanto in sintonia con quella dello scrittore: essa infatti, nella Sicilia degli anni Sessanta, si presenta, ancora una volta, come un fenomeno fortemente radicato nel territorio, in un complesso groviglio nel quale si intrecciano omertà, camarille politiche e solidi interessi economici. In tale contesto criminale, la figura del protagonista mafioso (un avvocato) rispecchia efficacemente l’immagine della borghesia parassitaria isolana, per la quale l’illegalità e le connivenze con la mafia costituiscono la strada più breve e agevole per arricchirsi e ascendere ai vertici della società. Contro questo perverso connubio è destinata a infrangersi la coraggiosa lotta dell’ingenuo professore, dal passato comunista, simbolo di un ceto intellettuale colto e progressista, destinato, nella pessimistica visione dello scrittore e del regista, in una Sicilia dove regna sovrana la regola dell’omertà, a un inesorabile isolamento e alla sconfitta. All’efficacia IL GIORNO DELLA CIVETTAdella denuncia politica, il film di Petri affianca la realistica descrizione degli ambienti del paese (dai caffè alle terrazze delle case) dove maturano gli eventi, nonché della contorta mentalità dei suoi abitanti, che contribuisce a creare una vera e propria “ragnatela” nella quale il professore rimarrà stritolato: “era un cretino” è la frase lapidaria pronunciata alla fine del film dai notabili del paese, ironica e strafottente nei confronti degli sforzi, generosi e inutili al tempo stesso, di chi ha tentato invano di cambiare una insostenibile situazione.
Un’ancor più esplicita e coraggiosa riflessione sulle connivenze tra mafia e potere politico, in anni in cui esse non sono ancora chiaramente e universalmente denunciate, compare in Il giorno della civetta (1968) di Damiano Damiani, anch’esso ispirato a un romanzo di Sciascia, pubblicato nel 1961. Nella trama, ricorrono vari elementi comuni a quella del precedente film di Petri. In un paese interno della Sicilia, un appaltatore e un agricoltore incensurato restano vittime di un omicidio. Anche qui, l’ipotesi del delitto passionale (vera e propria ossessione della Sicilia e del meridione in quegli anni) risulta poco credibile agli occhi di una persona colta e sveglia quale il capitano dei carabinieri, incaricato di svolgere le indagini relative ai due omicidi, un onesto ex partigiano settentrionale, ancora fiducioso negli ideali di giustizia e democrazia, il quale sospetta invece i suoi legami con la mafia edilizia. Anche qui, l’omertà dei paesani e gli autorevoli appoggi politici di cui gode il boss della mafia locale bloccano il cammino della giustizia e il capitano, divenuto oggetto di derisione e scherno da parte dei mafiosi del paese, riuniti sulla terrazza del loro capo, verrà trasferito al Nord, per ordine dei suoi superiori. Proprio sull’aspetto delle connivenze della mafia con le alte sfere della politica, si soffermano, in particolare, il romanzo di Sciascia e il film di Damiani. Quest’ultimo (discutibilmente vietato, alla sua uscita, ai minori di diciotto anni) segna, alla fine degli anni Sessanta, lo spostamento dell’attenzione del regista verso la Sicilia: non quella “folkloristica”, tradizionalmente al centro di tante commedie, bensì quella assillata dalla mafia e dai suoi rapporti con il potere politico, giudiziario e amministrativo. Di indubbia efficacia risulta, in tale contesto, la scena dell’ingresso del boss nella sede della Democrazia Cristiana, l’allora maggiore partito di governo: una scena evidentemente non molto gradita a una parte della stampa conservatrice. Come il professore di A ciascuno il suo, anche il coraggioso e integro capitano dei carabinieri è comunque destinato alla VAJONTsconfitta. Evidentemente, la mafia è troppo radicata nella tradizione culturale siciliana, sembra essere la conclusione del film, e ciò rende molto difficile sconfiggerla, tanto più se le istituzioni dello Stato non agiscono all’unisono contro di essa.

Alla tragedia ambientale che ha colpito Longarone, invece, già portata sulle scene teatrali da Marco Paolini con il monologo Il racconto del Vajont (1997), si ispira il film-reportage di Renzo Martinelli Vajont-La diga del disonore (2001), che ricostruisce gli sgradevoli retroscena di una catastrofe annunciata, la più grande, per numero di morti, nella storia dell’Italia del dopoguerra, e la seconda dopo il terremoto di Messina del 1908. Il film trae le mosse dalla costruzione della più alta diga del mondo, avviata nel 1959 in una valle del bellunese. I gravi pericoli che l’opera comporta per i villaggi circostanti, date le instabili condizioni geologiche della montagna su cui essa si regge, spingono una giornalista del quotidiano comunista L’Unità, Tina Merlin, ad avviare un’indagine contro la speculazione economica che ruota attorno all’opera. I suddetti dubbi vengono però ben presto messi a tacere, in un ben poco edificante balletto di omertà, connivenze, complicità politiche e rimpalli di responsabilità. Finché, la notte del 9 ottobre del 1963, si verifica la prevista tragedia: mentre molte persone sono incollate davanti al televisore, in un bar di Longarone, per assistere alla partita di Coppa dei Campioni fra Real Madrid e Rangers Glasgow, un’enorme frana, abbattutasi sul lago artificiale creato dalla diga, provoca una terribile ondata che travolge i paesi vicini, causando più di 2000 vittime. Pur avendo ricevuto numerose critiche, motivate principalmente da presunti “eccessi retorici” e “manichei”, nonché da un eccessivo ricorso alle nuove tecnologie, finalizzato ad esaltare gli effetti speciali del crollo del monte Toc e della conseguente ondata, il film è premiato da un notevole successo in Veneto e in Friuli. Tra i suoi meriti, quello di basarsi su un’accurata e rigorosa documentazione, in base alla quale esso rivela le diverse e pesanti responsabilità che si annidano dietro l’apparente fatalità di una catastrofe naturale, e la vergognosa impunità di cui hanno potuto godere i colpevoli nei vari gradi processuali, seguiti negli anni successivi al disastro. Ponendo in particolare rilievo i contrasti nel cantiere, e le pilatesche decisioni dei consigli di amministrazione, Vajont rivolge una pesante accusa a un nutrito numero di professionisti (in particolare i dirigenti della potente azienda elettrica SADE, Società Adriatica di Elettricità, che vuole a tutti i costi costruire la diga, nonostante il parere contrario dei geologi interpellati) e di politici (dagli amministratori locali ai ministri) che, pur sospettando i pericoli derivanti dalla costruzione della diga, scelgono il silenzio, per motivi prevalentemente legati a interessi economici e intrighi di potere. Spiccano, in tale contesto, l’immagine della coraggiosa ancorché inascoltata giornalista e quella della popolazione contadina locale, vittima in buona fede delle sirene del consumismo e del benessere che la costruzione della diga avrebbe dovuto portare nell’intera zona.

 

Le foto:
-La scena da Il giorno della civetta è tratta da commons.wikimedia.org
- L'immagine del disastro del Vajont è identificata come di pubblico dominio (creativecommons.org).

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