Questo sito utilizza i cookies per migliorare l'esperienza utente. Continuando la navigazione accetti l'utilizzo.

 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

IL COSTO DELLA FELICITÀ

SPEDICATOLa felicità consiste nell’ostentazione del denaro, del potere, del successo? O passa per altre vie, che insegnano a cogliere l’essenzialità delle cose contro il superfluo, l’effimero, la pochezza, la vacuità?

 

                                                    di EIDE SPEDICATO IENGO

 

Che cos’è la felicità? O, meglio, cosa significa essere felici? Non mancano le definizioni su questo concetto umano e mondano che, nel corso dei secoli e delle epoche, ha collezionato significati spesso fra loro inconciliabili: misura del piacere, proporzione della vita, virtù, saggezza, condizione di calma e di equilibrio, ricompensa per eletti, privilegio di pochi, nozione empiricamente irrealizzabile, diritto di ogni membro della specie umana, capacità di controllare le sfide poste dal destino, stato di soddisfazione dovuta alla propria situazione nel mondo. Nella società edonista la felicità equivale a un dovere: sentirsi infelici provoca sensi di colpa e induce a trovare una giustificazione alla propria condizione esistenziale, commentava Zygmunt Bauman.
 Francois-René de Chateaubriand sosteneva, invece, che la vera felicità si trova nella semplicità, nel godimento di piccole cose, nella consapevolezza dei propri limiti, nell’impiego e nell’esercizio delle doti che ciascuno possiede. «La vera felicità costa poco –scriveva- se è cara non è di buona qualità»[1], intendendo verosimilmente  con questa frase che è in errore vuoi chi sconfessa e svende sé stesso pur di trarre vantaggi dalle circostanze sfruttando ogni situazione pur di raggiungere mete e posizioni meramente utilitarie; vuoi chi vive realtà frustranti ritenendo possibile aspirare alla felicità totale, trascurando che un tale vagheggiamento appartiene all’utopia, a realtà irrealizzabili dalla (e nella) condizione umana per sua natura difettosa e precaria. Raggiungibile, invece, è la felicità minore, la felicità terrestre (la sola possibile per noi umani), ossia la felicità relativa di chi sa dare «un significato positivo alla propria esistenza»[2] e affrontare e vincere quelle «contraddizioni che rendono la nostra vita stupidamente difficile»[3].
Dunque, e concretamente, cosa significa essere felici o, meglio, come si può essere felici? Remo Cantoni, un intellettuale fra i più sensibili e raffinati del Novecento, spiega la felicità nel modo che segue: «Se per felicità intendiamo assenza di preoccupazione, non v’è dubbio che la felicità non esiste. Vivere significa preoccuparsi, essere in una situazione di bisogno, di cura che richiede uno sforzo, un lavoro da parte nostra per essere fronteggiata e superata. Una vita senza dolori, senza bisogni, senza difficoltà, senza privazioni, senza rischi non è una vita umana. La felicità va ricercata entro la condizione umana che sappiamo imperfetta e insufficiente. Essa consiste nel soddisfare le nostre inclinazioni. Queste si affermano e sviluppano solo in presenza di un ostacolo, di una resistenza. Non v’è piacere insomma senza dolore, né vittoria senza combattimento, né riposo senza fatica. Siamo felici quando riusciamo a espandere la nostra personalità, quando siamo noi stessi e non pedine di un gioco altrui o vittime di una situazione che ci opprime»[4]. La felicità terrestre, dunque, è stile, ritmo, armonia.
Secondo questa interpretazione può ritenersi felice chi non si irrigidisce in perimetri che impoveriscono e spersonalizzano moralmente e intellettualmente; chi si impegna a costruire consapevolmente il senso del proprio agire; chi si libera dai lacci e dai lacciuoli delle ovvietà del quotidiano; chi sa  ritagliarsi uno spazio fisico e un luogo della mente in cui è possibile prendersi cura di sé: come godere di un’emozione, di una sorpresa, di un incontro inatteso, di una conversazione intelligente, di un ricordo piacevole che rinnova sensazioni già provate. Fatti minimi, senza dubbio, ma indispensabili per indicare che la felicità è un bene nel quale ci si può imbattere anche per caso, come accade, per esempio, quando si BIMBO LAGOavverte di essere nei pensieri di qualcuno a cui non si pensava; o quando ci si scopre amati; o quando si ridestano energie che sembravano smarrite; o quando ci si riconcilia con sé stessi pur se in presenza di amarezze e delusioni.  Insomma la felicità è una corrente emozionale nella quale ci si può imbattere più spesso di quanto non si pensi, purché si voglia e si sia educati a riconoscerla.
Quanto appena detto orienta, però, a porsi una domanda: noi umani del XXI secolo siamo in grado di apprezzare e riconoscerci in questo tipo di felicità? A quanto è dato rilevare dal timbro dell’attuale società, verosimilmente no. Il motivo è lapalissiano: nell’immaginario collettivo della società bulimica, disordinata, ondivaga, affannata dell’oggi che addestra al regno dei diritti senza doveri, alla competizione frenetica e sleale, alla supponenza, al culto arrogante di sé, la felicità viene identificata soprattutto con l’ostentazione del denaro, del potere, del successo, della visibilità sociale, ovvero con l’esatto contrario di quanto appena proposto. Per inciso: anche se si allertasse sui danni che può produrre l’idolatria nei confronti di questi “beni” che, peraltro, non conoscono saturazione, probabilmente non si registrerebbe alcun cambio di passo. E non potrebbe essere altrimenti, dato il successo di due letture del mondo fortemente radicate nell’attuale stagione storica: le costruzioni mentali e le modalità comportamentali di stampo individualistico che hanno cura solo del proprio particolare, e il peso di un mono-pensiero che droga e fertilizza l’uniformizzazione di menti e coscienze.
Molto altro, naturalmente, potrebbe aggiungersi a quanto detto, ma le brevi considerazioni proposte penso siano sufficienti a chiarire che la speranza alla felicità (come suggeriva Remo Cantoni e, in tempi più recenti, Zygmunt Bauman) domanda con urgenza alfabeti comunicativi, relazionali, educativi, organizzativi di segno assai diverso da quelli disordinati, frammentati, scomposti, sciatti, rarefatti e, non di rado, involuti dell’oggi. La felicità terrestre –la sola possibile per noi abitanti del pianeta- è quella che fa diventare più umana e razionale l’esistenza: quella, insomma, che rende meno imperfetto il mondo che abitiamo.

 

[1] La frase in questione è citata da G. Ravasi, Le parole e i giorni, Mondadori, Milano, 2010, p.240.
[2] R. Cantoni, La vita quotidiana, Mondadori, Milano, 1955, p.16.
[3] Idem, p.188.
[4] Idem, p. 187.

 Foto di Arek Socha da Pixabay

Per inserire un commento devi effettuare il l'accesso. Clicca sulla voce di menu LOGIN per inserire le tue credenziali oppure per Registrati al sito e creare un account.

© A PASSO D'UOMO - All Rights Reserved.