Questo sito utilizza i cookies per migliorare l'esperienza utente. Continuando la navigazione accetti l'utilizzo.

 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

SIMBOLI VAGANTI

SPEDICATOLa memoria è garanzia di futuro: un popolo che non conosce il senso vitale del suo passato è destinato a scomparire. Il nullismo del pensiero si combatte con la cura e la tutela dell’eredità sociale, civile e politica della nostra storia nazionale.


di EIDE SPEDICATO IENGO

L’homo sapiens è un costruttore di simboli, e i simboli, nel rendere continuativa e cumulativa l’esperienza umana, sono segni di riconoscimento e condivisione di mappe valoriali e sistemi ideali. Nella loro veste di elementi orientanti creano comunità, sostengono nella percezione di essere parte di un tutto, servono a mappare la realtà rendendola meno contingente e il tempo abitabile come fosse una casa[1]. Detto altrimenti: in assenza di capacità simbolica la cultura non esisterebbe e non esisterebbe l’uomo.
Tuttavia, negli attuali scenari sociali in cui la logica della discontinuità qualitativa e della revocabilità permanente hanno cambiato radicalmente (peraltro in tempi brevissimi) l’organizzazione e i fondamenti della convivenza umana, la funzione simbolica di prassi, gesti, oggetti, eventi, si è fortemente appannata per almeno tre fondamentali motivi. Vuoi perché la società, una volta persa la fisionomia di struttura e assunta quella di una rete, di una matrice di connessioni e disconnessioni casuali sostenute da un numero infinito di possibili combinazioni, moltiplica le appartenenze “corte”, dando spazio a individualità superficiali, frettolose, distratte che si muovono in un uniforme fluire di momenti privi di incoraggi; vuoi perché la società liquida 2pratica della riflessione e dell’autoriflessione, della critica e dell’autocritica non godono, a livello collettivo, di particolare cittadinanza in questo tempo della Storia (ne è prova la bulimia della chiacchiera e la marginalizzazione del pensiero); vuoi perché l’obiettivo della globalizzazione (dei mercati, delle menti e dei saperi) di uniformare e ridurre la cifra delle singolarità nelle strettoie di un medesimo schema integralista, è stato raggiunto con successo.
Il soggetto globalizzato, che lo si creda o no, è incapace di dare alle cose un senso stabile e permanente e altrettanto incapace di individuare punti di riferimento orientanti e familiari. Vive, non per caso, in un presente scarnificato che, oltre a coprire d’insignificanza il futuro, ha vistosamente espunto da sé soprattutto il senso del passato. Il che non è questione di poco conto, da accettare disinvoltamente: un popolo che non conosce il senso vitale del suo passato è destinato inevitabilmente a estinguersi, a collassare. Lungi dall’essere residui in via d’estinzione, la memoria e il senso del passato sono, dunque, garanzia di futuro, sia perché offrono ossigeno al pensiero fornendogli autonomia e criteri di giudizio, sia perché riescono a contrastare il presentismo in cui siamo drammaticamente intrappolati.
A proposito di questo aspetto della contemporaneità,  Franco Cassano annotava che il presente, spogliato «dall’invasione di tutto ciò che sta oltre i suoi confini […] è un albero avvizzito, una terra desolata e insicura»[2], inabitabile che si chiude il mondo alle spalle. L’uomo può definirsi tale -precisava- perché è insieme ricordo e anticipazione, memoria e attesa; perché sa tornare indietro nel tempo e possiede il sentimento del futuro. Sono il passato e il futuro, infatti, che consentono di dare aria al presente, di romperne la claustrofobia, di renderlo abitabile e decente. Nelle stanze del presente, l’uno e l’altro -continua Cassano- «mettono fiori nei vasi, quadri e colori sulle pareti, accendono la radio e fanno partire la musica. Il presente allo stato puro non esiste, perché la sua aria sarebbe irrespirabile»[3].
Tuttavia la consapevolezza di tale scoraggiante condizione esistenziale è appannaggio di pochi. E non potrebbe essere diversamente, perché la categoria del presente assoluto (ossia del presentismo) che fortifica le ovvietà e le autoevidenze e sollecita a vivere in capanne mentali sigillate, autocentrate, protettive che fissano nello spazio di abitudini mai attraversate dal valore epistemologico del dubbio, promuove il sonnambulismo del quotidiano e modelli di convivenza sorretti da individui senza società[4], ovvero da individualità disinvoltamente disimpegnate sul versante sociale, etico, collettivo. Esattamente quello che oggi è dato riscontrare.
Tale panorama segnala (dovrebbe segnalare) la necessità di mettere in campo urgenti terapie di riorganizzazione sociale. Per esempio, cominciando a sbarrare la porta al nullismo del pensiero e al declassamento della parola a veicolo di esibizionismi, vacuità, narcisismi, insipienze; alla società-spettacolo e a certi luoghi-caricatura dell’istruzione di massa; al pressappochismo politico e alla corruzione; all’illegalità e all’individualismo dei diritti senza doveri. E, per contrappunto, iniziando a ricucire gli strappi del patrimonio culturale di cui siamo espressione; a sollecitare gli spazi che promuovono condivisione; a dilatare le maglie della nostra identità per rimuovere quelle ombre che impediscono di valutarsi e valutare in modo onesto; a tutelare l’eredità sociale, civile, politica della nostra storia nazionale (tanto ricca quanto poco conosciuta) rivitalizzando, per esempio, il significato di quegli eventi-simbolo troppo spesso trasformati in spazi di schiuma o celebrati sciattamente senza consapevolezza solo per rispettare una data del calendario.
Oggi non è tempo di liturgie, è tempo di cambiare passo: di dare voce alla riflessione critica, silente da troppo tempo; alla progettazione di nuove traiettorie di vita; all’allestimento di percorsi esistenziali versati a dialogare con il mondo screziato dell’oggi e, perciò, capaci di raggiungere i propri antipodi ma anche di tornare a casa, nel tempo e nello spazio in cui ci si riconosce.

[1] B-C. Han, La scomparsa dei riti, Nottetempo, 2021.
[2] F. Cassano, Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo, il Mulino, 2001, p.77.
[3] Idem, p.78.
[4] A. Santambrogio, Ecologia sociale. La società dopo la pandemia, Mondadori, 2021.

La foto La Golconda di René Magritte è tratta da lefotogratis.it 

Per inserire un commento devi effettuare il l'accesso. Clicca sulla voce di menu LOGIN per inserire le tue credenziali oppure per Registrati al sito e creare un account.

© A PASSO D'UOMO - All Rights Reserved.