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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

QUESTO NON È UN DIARIO

DIARIOAlessandra Bouzas, Questo non è un diario. Scritturazione di sé e scrittura del sé. Albatros, Roma, 2016, pp. 202, € 13,90.
Recensione di EIDE SPEDICATO IENGO

Sono numerose le prospettive attraverso le quali si può analizzare la nostra società sbriciolata in espressioni contraddittorie, impersonali, supponenti, indifferenti, incapaci soprattutto di promuovere convergenze intelligenti e congrue ad orientare in direzione di prassi responsabili, coerenti, attendibili. Quella scelta da Alessandra Bouzas è fuor di ogni dubbio decisamente originale. In questo suo testo discute, infatti, del diario (o, meglio, dell’attività diaristica) che trasforma nella guida scrupolosa di un minuzioso, puntiglioso viaggio fra le prassi seriali, il pensiero eterodiretto, i modi sempre meno differenziati, autonomi, personali che targano l’impianto sociale contemporaneo. Il risultato è un discorso analitico e compatto di critica sociale che poggia sull’incontro di due esigenze: una cognitiva e una esistenziale. La prima è tesa ad allertare sulle mitologie contemporanee e, specificamente, su quella di una modernità che, accordando ampia udienza alle espressioni dell’homo insipiens, ha dichiaratamente in dispetto l’autodeterminazione, l’autonomia del giudizio, il piano della critica e dell’autocritica; la seconda è espressione del rifiuto ragionato e intenzionale di non lasciarsi intrappolare vuoi nella palude dell’omologazione culturale sempre più pervasiva, aggressiva, coattiva, vuoi nelle procedure dell’homo tecnologicus sempre più simile a pedina di un Golem prodotto da lui, ma a lui inesorabilmente sfuggito.
Ma scendiamo in qualche dettaglio di queste pagine che si articolano in tre sezioni distinte. La prima, sulla struttura dell’agenda professionale e sui suoi livelli di monitoraggio ossessivo delle attività produttive, fa da sponda alla seconda in cui viene dimostrato come la fenomenologia dell’agenda da lavoro abbia robustamente contagiato la struttura del diario personale, stravolgendone la forma, il significato, la natura. Questo, infatti, appartiene (o forse vien da dire “apparteneva”) a quella forma narrativa nella quale le circostanze e le situazioni annotate servivano al diarista sia per riflettere su ciò colpiva la sua sensibilità, sia per confrontarsi con sé stesso. Ma tale modalità di lettura di sé e del contesto osservato sembra essere definitivamente tramontata. Diversamente dal passato la stesura diaristica attuale è diventata una cronaca fredda e asettica della giornata, in cui l’assenza di introspezione e di valutazioni è vicariata dalla presenza di frasette celebri, emoticon, emoji, adesivi, disegnini.
Una simile trasformazione, precisa l’Autrice (che è vissuta parecchi anni in Inghilterra e ha avuto modo di analizzare scrupolosamente la nuova diaristica e le sue zoppie) dovrebbe preoccupare non poco: vuoi perché tradisce secoli di tradizione culturale e letteraria, vuoi perché documenta l’impoverimento intellettuale ed emotivo dei soggetti e il loro adattamento a modalità comunicative che intenzionalmente li rendono sempre meno attori agenti e sempre più rigidi sorveglianti di sé stessi e passivi esecutori di regole e norme che derivano dall’esterno. Il dilagare della mentalità produttivistica e aziendalistica negli spazi privati ha, infatti, deformato pesantemente la scrittura del diario personale che, ingabbiata in griglie, spazi angusti, tracciati che «ricordano le inferriate di una cella o la tela di una rete» (p.197), è diventata una sorta di «matematica revisione dei conti a fine giornata» (p.20) in cui non c’è traccia di percezioni, sensazioni, riflessioni. La terza sezione, infine, affronta con dovizia di dettagli e argomentazioni la natura dell’attività diaristica “classica”, i motivi della sua emarginazione in spazi sempre più ridotti e sempre meno praticati e le criticità che ne possono derivare in particolare sul versante della coscienza riflessiva. L’atto della scrittura diaristica, precisa al proposito l’Autrice, «è una riappropriazione di ciò che siamo, di ciò che viviamo e notiamo: è concentrazione, è ritrovare la nostra voce nel caos assordante della realtà esterna, è un punto fermo in un universo che gira» (p. 196). Perciò la necessità di tutelarlo.
Già queste brevi considerazioni suggeriscono la presenza nel volume di alcune insistenze tematiche: quali, come si accennava, la critica della cultura produttivistica e pianificatrice che baratta il valore umano con quello utilitaristico e funzionale; la tutela della funzione dell’introspezione, della relazione, delle prospettive interrogative; l’impegno a promuovere la lettura e a praticare la scrittura per interpretare la realtà in cui si vive per crescere, mettersi in gioco, offrire ossigeno al cervello.
Questo volume, che torno a ripetere può essere sfogliato in più direzioni, è dunque, a mio avviso, soprattutto un pretesto (intelligente ed eticamente corretto) vuoi per allertare sui rischi della compressione dell’umanità nelle strettoie di un unico, illiberale modello di vita garante di inconsapevolezza e di sedentarietà valutativa; vuoi per proteggere il compito del pensiero che è quello di slargare la maglia stretta della realtà e renderla multipla per offrire più universi simbolici da abitare; vuoi per invitare a praticare lo spirito laico, l’unico che può riparare dai fondamentalismi e dal pensiero ridotto a strumento di produzione.

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