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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

LA RESISTENZA AL CINEMA

PROIETTORESeconda parte. Dalla narrazione corale dei Fratelli Taviani al cinema post-ideologico alle complesse vicende intrecciate intorno alle stragi nazifasciste.

di ROBERTO LEOMBRONI

 

ROBERTONegli anni Ottanta, la Resistenza continua a essere oggetto di passione politica, assumendo in taluni casi contorni leggendari: ciò accade in particolare in un celebre film dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, La notte di San Lorenzo (1982), che rievoca la distruzione, da parte dei nazifascisti, del paesino toscano di San Miniato, avvenuta nel luglio del 1944. L’episodio raccontato nel film si ispira a una vicenda autobiografica accaduta quando Vittorio aveva quindici anni e Paolo tredici. La storia viene narrata al suo bambino da una donna, a sua volta bambina durante lo svolgimento dei fatti, che vive come un gioco e una vacanza il dramma collettivo: la vicenda assume pertanto quei caratteri magici e fiabeschi che risultano necessariamente legati all’ingenuità e allo stupore dell’infanzia. Lungi dall’operare una corretta ricostruzione storiografica, i Taviani (che già nel 1954 avevano realizzato, insieme a Valentino Orsini, un documentario dal FRATELLI TAVIANItitolo San Miniato, luglio 1944), in questo film non si limitano a registrare gli eventi (alla maniera neorealista) bensì li trasfigurano in leggenda, collocandoli in una dimensione quasi a-temporale e narrandoli in maniera corale, sull’affascinante sfondo della campagna toscana, allo scopo di esaltare alcuni valori fondamentali, quali la coraggiosa ricerca dell’utopia (in questo caso il raggiungimento delle postazioni americane da parte degli abitanti di un borgo toscano) o la volontà di conservare la memoria degli eventi (ben presente nel racconto della donna ormai adulta alla figlia). Ciò non impedisce loro di realizzare comunque un film storico sulla Toscana negli anni 1943-45, nel quale l’implacabile e violenta guerra civile tra fascismo e antifascismo, che raggiunge l’acme con un feroce scontro che avviene nello splendido scenario di un campo di grano, interagisce con il gioco e la filastrocca, l’epica cavalleresca, la cultura contadina e popolare, scene di nozze e tenere storie d’amore tra anziani, in un continuo scontro dialettico tra bene e male, dolore e felicità, coraggio e viltà. Altrettanto diffusa, nel film, è la presenza dei simboli: si pensi, in particolare alla sequenza successiva all’esplosione di una bomba nella cattedrale del borgo (in realtà distrutta da un bombardamento alleato), dopo una comunione consumata con pezzi di pane spezzati dal vescovo, tra i superstiti che si contano in mezzo al sangue.

Nel corso del decennio successivo, all’indomani della caduta dei muri, si afferma anche nella cinematografia sulla Resistenza, una visione “post-ideologica”, sganciata dalla lettura prevalentemente marxista degli eventi, che si era imposta in particolare negli anni Sessanta-Settanta. Due sono, in tale contesto, le direttrici principali imboccate: da una parte si prendono in considerazione, pur tra stridenti polemiche, alcuni degli episodi meno edificanti verificatisi nel contesto della guerra partigiana; dall’altra si rivolge la propria attenzione verso il contributo fornito alla lotta di liberazione dalle componenti non comuniste (da quella liberal-socialista del Partito d’Azione a quella badogliana). A tale scopo rispondono, in particolare, tre film realizzati nella seconda metà del decennio: Porzus (1997) di Renzo Martinelli, I piccoli maestri (1998) di Daniele Luchetti e Il partigiano Johnny (2000) di Guido Chiesa.
Il primo si avventura nella difficile ricostruzione di un evento quasi completamente ignorato dalla Storia ufficiale e dall’opinione pubblica: lo sterminio, operato il 7 febbraio del 1945, dunque nell’ultima fase della guerra di liberazione, da un centinaio di partigiani della Brigata Garibaldi e dei GAP comunisti, in collegamento con la Resistenza slovena, nella località di Porzus, in Venezia Giulia, ai confini con la Jugoslavia, ai danni di un gruppo di combattenti della Brigata Osoppo, di ispirazione liberal-socialista, cattolica e monarchica. L’accusa, che dovrebbe giustificare il massacro, è quella di collusione con il nemico, a causa dell’ospitalità fornita a una ragazza additata da Radio Londra come spia nazista. Si tratta di un episodio nel corso del quale trovano la morte, tra gli altri, il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido, e lo zio di Francesco De Gregori. Solo tre persone scampano all’eccidio: tra PORZUSloro c’è Aldo Bricco (nome di battaglia Storno) che, parecchi anni dopo, si recherà in Slovenia a trovare Mario Toffanin (nome di battaglia Giacca), il capo della Brigata Garibaldi responsabile della strage. I due, ormai vecchi, malati e delusi, daranno vita a un drammatico confronto, richiamando alla memoria quei tragici eventi. Nella sua ricostruzione dei fatti, Martinelli si basa principalmente sugli atti di un processo, svoltosi a Lucca all’inizio degli anni Cinquanta, contro i responsabili della strage, conclusosi con alcune condanne. SSella strage, che, i concluseul reale svolgimento degli eventi esistono tuttavia diverse versioni, alcune delle quali profondamente discordanti da quella proposta dal film di Martinelli. L’episodio risulta ancor più inquietante in quanto esso accade in un contesto caratterizzato dalle rivendicazioni territoriali dei partigiani jugoslavi di Tito e dalla loro volontà di vendetta nei confronti dell’Italia fascista, che nel corso della guerra aveva occupato militarmente la Slovenia e la Croazia e si era reso responsabile di numerosi massacri: una spinta vendicativa che troverà il suo apice nella tragica vicenda delle “foibe”. Nonostante sia stato realizzato con la collaborazione di cineasti di sinistra (tra essi Furio Scarpelli), e il regista si dichiari estraneo all’ondata di revisionismo storiografico che investe la Resistenza italiana, e che vede in prima fila le forze politiche dell’estrema destra, ansiose, di accreditare l’immagine dei partigiani comunisti come quella di rivoluzionari assassini piuttosto che di patrioti, Porzus, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 1997, scatenerà violente polemiche: Toffanin farà causa al regista, mentre un infocato dibattito si accenderà nella rubrica delle lettere su un numero della rivista Panorama, nel corso del quale alcuni lettori (tra i quali anche un ex partigiano) contesteranno la versione dei fatti fornita dal film.
I piccoli maestri vede invece protagonista un gruppo di giovani ventenni, in gran parte aderenti al Partito d’Azione, una piccola formazione politica che occupa un ruolo di primo piano, pur se di breve durata, nell’ambito della Resistenza. Il film di Luchetti, ispirato a un romanzo autobiografico degli anni Sessanta dello scrittore-partigiano veneto Luigi Meneghello (il titolo probabilmente deriva da un’espressione francese che indica una sorta di “banditi educati”), racconta la vivace esperienza di un pugno di studenti universitari vicentini, che vivono a Padova, i quali, spinti da motivazioni etiche e ideali più che politiche, decidono, dopo l’8 settembre, di raggiungere l’Altopiano di Asiago dove, tra il 1943 e il 1945, danno vita alla lotta partigiana, evitando però accuratamente di confondersi con le formazioni comuniste. Il loro estremismo, la loro temerarietà e il loro eccessivo entusiasmo, che si accompagnano a una notevole inesperienza, li spingono tuttavia a commettere numerosi errori. Attraverso l’analisi dei personaggi, animati da una sincera volontà di lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia, il film racconta una pagina poco nota della guerra di liberazione, di cui è stato protagonista lo stesso Meneghello, mettendo in evidenza meriti e difetti del Partito d’Azione, una formazione politica che, se da una parte rappresenta l’espressione migliore di una certa borghesia intellettuale progressista e riformista (è significativo che negli zaini dei ragazzi trovino posto le poesie di Rilke), dall’altra pecca, agli occhi del regista, di eccessiva astrattezza e manca di una solida chiarezza di obiettivi. A riprova di tali limiti, il film mette in rilievo pregi e limiti del gruppo di ragazzi. Da una parte si sottolinea il loro forte spirito umanitario e una sorta di repulsione “estetica” nei confronti della morte e del sangue, che si manifesta ogni volta che ci si trova in condizione di dover uccidere un nemico guardandolo negli occhi e che li spinge a consolare una spia tedesca prima di fucilarla o a risparmiare un ostaggio fascista in preda alla paura: un atteggiamento che il regista contrappone (con qualche eccesso di manicheismo) a quello dei comunisti “garibaldini”, che appaiono nel film, secondo una lettura stereotipata, privi di scrupoli e vittime di una sorta di ottusità burocratica. Ma al tempo stesso si pone in evidenza anche lo spirito “ludico” e scanzonato con cui quei giovani affrontano i rischi e i pericoli della lotta clandestina. Il regista osserva con simpatia il loro disprezzo per la retorica (prerogativa fondamentale dei partigiani azionisti). Si tratta tuttavia di un atteggiamento goliardico che è destinato ben presto a cozzare con la drammatica realtà della lotta clandestina, tutt’altro che “gentile” ed “educata”, e sulla quale incombe continuamente l’incubo della morte in battaglia, dei rastrellamenti e delle torture. Tale impostazione, radicalmente “eterodossa”, del film spiega in parte lo scarso successo da esso conseguito tra il pubblico e la critica, entrambi impreparati a recepire una lettura radicalmente antieroica, antiretorica, “desacralizzata” e in parte ironica (al limite del grottesco) della Resistenza.
Tra i film sulla Resistenza prodotti alla fine del primo millennio, Il partigiano Johnny (2000), realizzato dal regista torinese Guido Chiesa, tratto dall’omonimo romanzo incompiuto di Beppe Fenoglio, è anch’esso ispirato a un chiaro intento antiretorico e anticelebrativo. Protagonista del racconto, che si snoda tra l’ottobre del 1943 e il febbraio del 1945, è uno studente di letteratura inglese che, tornato ad Alba nel corso della guerra, vive nascosto in una villetta come disertore. All’indomani dell’8 settembre, egli decide di entrare nelle schiere dei partigiani che combattono i nazifascisti. Fedele al carattere sobrio e asciutto del testo letterario e ben inserito nell’atmosfera piemontese delle Langhe, il film di Chiesa si misura con le difficoltà legate all’impresa di raccontare le vicende resistenziali in un momento particolare (la fine del primo millennio, appunto), in cui le grandi idealità e la storia stessa, tra negazionismi e revisionismi vari, non godono di ottima salute. Pur non volendo essere un film storico sulla Resistenza, esso nasce comunque come il frutto di un lungo lavoro di documentazione sulla storia della lotta partigiana ed è pieno di riferimenti agli eventi di quei mesi: dalla radio che annuncia l’armistizio dell’8 settembre alle immagini dell’occupazione tedesca; dal volto sempre più sofferente di Mussolini al bando del generale Graziani che esorta i giovani ad aderire alla RSI e minaccia i renitenti. Ma nel film lo storico può trovare anche altri precisi punti di riferimento, tra i quali le frequenti scaramucce tra partigiani comunisti (“rossi”) e badogliani (“azzurri”) e l’effimera esperienza della repubblica partigiana di Alba. Segnato da un’evidente nostalgia per una stagione improntata a un notevole rigore etico, Il partigiano Johnny esalta i valori della Resistenza, ma ne sfronda, al tempo stesso, gli aspetti leggendari, mettendone in risalto, in una dimensione surreale e simbolica, gli aspetti meno eroici e più dolorosi, ovvero quelli legati alla lotta per la sopravvivenza quotidiana, ai disagi prodotti dalla fame e dal freddo, ai continui rischi degli agguati e dei rastrellamenti, alla drammatica consapevolezza del fatto che ogni azione partigiana può scatenare una rappresaglia sanguinosa sulla popolazione civile.

All’inizio del nuovo millennio, la seconda guerra mondiale e la Resistenza sono ancora al centro dell’interesse cinematografico, grazie in particolare a due film che rievocano due dei più efferati massacri compiuti dai nazisti nel corso delle loro rappresaglie: quello di Sant’Anna di Stazzema e quello di Marzabotto.
Alla strage perpetrata nel paesino toscano si ispira il film Miracolo a Sant’Anna, realizzato nel 2008 dal regista americano Spike Lee, sulla scia dell’omonimo romanzo (2002) di James Mc Bride. Protagonista di entrambi è una divisione americana, la Buffalo Soldiers, composta per intero da afro-americani. Uno di loro rischia la vita per salvare un bambino, che ha perso la parola ed evidenzia chiari disturbi nervosi. In realtà egli nasconde un orribile segreto, essendo l’unico sopravvissuto alla rappresaglia nazista contro la popolazione civile di Sant’Anna di Stazzema. Sia il film sia il romanzo hanno l’indubbio merito di aver proposto all’opinione pubblica uno dei più drammatici eventi rimossi della seconda guerra mondiale. Rifiutando, secondo il proprio stile, un punto di vista unico, il regista americano affronta il tema del rapporto tra bianchi e neri lontano dagli stereotipi e dai confini degli Stati Uniti, misurandosi con una situazione dominata da una notevole complessità, in cui la realtà della guerra interagisce con una problematica di forte impatto sociale, quale quella razziale. I quattro soldati neri infatti hanno subìto discriminazioni in patria, temporaneamente superate solo per il bisogno che l’esercito americano ha di una grande quantità di uomini da utilizzare sul fronte europeo. Le loro sensibilità sono inoltre profondamente diverse: nella difficile situazione militare e umana che essi stanno vivendo, qualcuno di loro si accorge del permanere della discriminazione da parte degli ufficiali bianchi ed è pertanto preoccupato per il futuro dei propri figli. Altri invece si accontentano della sia pur effimera condizione favorevole. Difficile risulta, inoltre, per quei soldati, la comprensione di una realtà “altra”, rappresentata dal paesino toscano, in cui stranamente convivono forme di varia umanità: fascisti ortodossi, donne disponibili alla seduzione e partigiani. Anche questi ultimi non costituiscono un’entità omogenea: tra loro c’è il capo, un idealista pentito, convinto di essere di fatto il responsabile della strage, per non essersi consegnato ai tedeschi; ma ci sono anche partigiani corrotti e chi, pur combattendo il nemico, vive con angoscia la necessità, peculiare di ogni guerra civile, di uccidere il parente o il vicino di casa che stanno dall’altra parte. Così come, tra gli stessi tedeschi, c’è qualcuno che vorrebbe sottrarsi a quella violenza cieca. Nonostante i suoi meriti cinematografici (non ultimo quello di essere il primo film americano a parlare della guerra dei neri, argomento che probabilmente interessa al regista più delle interpretazioni della Resistenza), Miracolo a Sant’Anna ha scatenato numerose polemiche di carattere storiografico nella critica italiana e internazionale. Ciò che non è piaciuto a molti è il modo (ritenuto eccessivamente superficiale) di affrontare una tematica complessa quale quella della strage, considerata, contrariamente a quanto sarà successivamente sancito dal tribunale di La Spezia, come una mera reazione “emotiva” dei tedeschi nei confronti della mancata consegna del capo della Resistenza locale da parte di un partigiano traditore. La rappresentazione del comportamento dei partigiani e dei nazisti è stata inoltre ritenuta eccessivamente qualunquistica e molto poco realistica. Secondo tale filone critico, di MARZABOTTOcui si è fatta interprete la stessa ANPI, il film di Lee, pur apprezzato dai cittadini di Sant’Anna (il Comune ha conferito al regista la cittadinanza onoraria) e dalle associazioni dei martiri, porterebbe acqua al mulino di quegli storici “revisionisti” che (come, ad esempio Giampaolo Pansa nel suo Il sangue dei vinti del 2003) vorrebbero riscrivere la storia della seconda guerra mondiale, appannando i valori della Resistenza antifascista, o, peggio, di coloro che hanno sempre tentato di infangarla, accusando i partigiani di aver provocato, con le loro azioni di disturbo, le rappresaglie tedesche. In realtà, dal film si evince con chiarezza la condanna inequivocabile della vigliaccheria dei nazisti (non a caso sempre rappresentati grassi, ottusi e arroganti): il pentimento del partigiano, in tale contesto, perseguirebbe il solo scopo di contrapporre alla loro criminale meschinità lo spessore morale dei combattenti per la libertà.
La strage di Marzabotto, invece, già ricordata in alcuni documentari di Carlo De Carlo (rispettivamente nel 1961, 1984 e 1994), è stata rievocata nel film di Giorgio Diritti, L’uomo che verrà (2009). La vicenda ha inizio nell’inverno del 1943, e vede protagonista una bambina di otto anni, figlia unica di una povera famiglia contadina che vive alle pendici di Montesole, sull’Appennino tosco-emiliano. Dotata di particolare sensibilità, ella ha perso pochi anni prima l’uso della parola, per lo choc subito in seguito alla morte di un fratellino neonato. Quando la madre rimane nuovamente incinta, il conflitto è ormai alle porte e la vita si fa sempre più dura, tra le attività dei partigiani, istintivamente appoggiati dai contadini, pur privi di coscienza di classe, e l’avanzata tedesca. Nella notte tra il 28 e il 29 settembre del 1944, mentre le SS scatenano il rastrellamento che dà luogo alla strage, il bambino (“l’uomo che verrà”) finalmente nascerà e sarà salvato dalla sorella, portando un barlume di speranza nel futuro del villaggio distrutto. Il film di Diritti si distingue per la sua particolare capacità nel conciliare il necessario rigore filologico, che l’evento storico richiede, con l’esaltazione degli aspetti umani e personali della tragedia vissuta dagli abitanti del paesino: un universo contadino ingenuo e arcaico, la cui vita si svolge tra i campi e le stalle, in uno stupendo scenario naturale, indifferente alle sofferenze umane, improvvisamente sconvolto dalla barbarie nazista. Ne viene fuori un efficace racconto collettivo, filtrato attraverso il punto di vista dei sopravvissuti e delle umili vittime incolpevoli, che non vogliono abbandonare le proprie case e i propri animali e che subiscono le razzie e le prepotenze dei tedeschi: un racconto recitato in stretto dialetto bolognese (l’italiano è riservato ai tedeschi o agli esponenti delle classi più elevate) sia dagli attori professionisti sia da quelli comuni, reclutati tra gli abitanti di quei luoghi, alcuni dei quali serbano ancora il ricordo della strage. Il film giunge a conclusione di un accurato lavoro di ricerca, condotto sulle fonti e sulle testimonianze dei superstiti, che non intacca tuttavia il respiro emotivo dell’intera storia, raccontata attraverso lo sguardo stupito della bambina e dei membri della sua famiglia di fronte agli orrori e alle bestialità della guerra. Oltre ad astenersi da qualsiasi giudizio di carattere storico-ideologico nei confronti dei tedeschi e dei partigiani, il regista, peraltro poco incline al revisionismo, evita anche il ricorso a scene di sangue o a particolari artifici enfatici, volti a sollecitare la commozione del pubblico, accentuando, al contrario, l’attenzione verso le piccole incombenze quotidiane dei protagonisti, dalla dura vita nei campi all’attesa della nascita del bambino, in un intreccio inesorabile tra la vita e la morte.

(2-fine). Per leggere la prima puntata cliccare qui

 

La foto dei Fratelli Taviani è di Georges Biard (CC BY-SA 3.0)
La foto
 in bianco e nero, relativa a Porzus, è di wikiefia.org/wiki/Utente:Presbite (CC BY-SA 4.0)

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