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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

I CANTI DELLA LIBERTÀ

DONNE RESISTENZALe canzoni che hanno accompagnato e seguito la Resistenza, esprimendone passioni, ideali, speranze e, qualche volta, le delusioni dei tempi che l’hanno seguita. Dalle melodie popolari fino ai Modena City Ramblers.


di ROBERTO LEOMBRONI

ROBERTOEnorme è l’importanza del canto nell’ambito dell’esperienza resistenziale. Il comandante partigiano Cino Moscatelli afferma esplicitamente, in una sua testimonianza, che esso ha costituito «un efficace strumento di propaganda e di organizzazione, di disciplina e di educazione collettiva», in quanto «per mezzo di rime e ritmi si orientavano politicamente i partigiani, si impartivano direttive». Il patrimonio di canti della Resistenza è imponente, pur se scarsamente originale: gran parte delle canzoni partigiane, infatti, sono costituite (accanto alla riproposizione di inni pre-fascisti appartenenti alla tradizione del movimento operaio, socialista e anarchico, da Bandiera rossa all’Internazionale, dall’Inno dei lavoratori agli Stornelli dell’esilio di Pietro Gori; ma anche di canti patriottici quali l’Inno di Mameli e l’Inno di Garibaldi, preferiti da quelle formazioni militari partigiane che concepiscono la Resistenza come un “secondo Risorgimento”) dal riadattamento (talvolta dalla parodia) di vecchi motivi della canzone politica (anche fascista) o leggera: una delle più celebri canzoni partigiane, Pietà l’è morta (ma il discorso vale per tanti altri canti della Resistenza), ad esempio, è nata dalla rielaborazione di una canzone della prima guerra mondiale. Le canzoni partigiane risentono ovviamente della diversa collocazione politica delle varie formazioni e brigate, anche se alcune di esse appartengono al comune patrimonio della Resistenza e vengono cantate indifferentemente dai “garibaldini” come dai combattenti di Giustizia e Libertà, dai cattolici come dai badogliani.
Nella sterminata serie di canti popolari, prodotti ad opera di singoli o, più spesso, di gruppi di partigiani, spicca, tra i primi in ordine cronologico, Se non ci ammazza i crucchi, un canto diffuso nella Val d’Ossola e nel Varesotto. Composto sull’aria di una melodia popolare, probabilmente preesistente, esso descrive in chiave scherzosa e dissacrante, in una lingua ricca di espressioni gergali (i “crucchi” sono i tedeschi; i “bricchi” le rocce; il “vento di marenca” il maestrale), le privazioni a cui sono sottoposti i combattenti della guerra di liberazione. Di particolare efficacia la strofa finale, dalla quale traspare il grande desiderio (il “sogno”) che anima i partigiani, ovvero quello di tornare a una normalità caratterizzata anche da occasioni festose: è la stessa immagine che ritroveremo in una parte della cinematografia del dopoguerra, in cui sono frequenti le scene di partigiani e gente comune che ballano a liberazione avvenuta. Il canto è stato raccolto, su iniziativa del regista teatrale, nonché premio Nobel, Dario Fo, dalla viva voce di un partigiano di Porto Val Travaglia (Varese), appartenente alla banda del colonnello Carlo Croce, formata da 180 partigiani, per lo più giovani militari che, pur privi di coscienza politico-ideologica, si rendono protagonisti di uno dei primi episodi di resistenza al nazifascismo nella zona, opponendosi con VALSESIAtutte le loro forze all’attacco dei militari dell’esercito tedesco e rimanendo decimati durante la battaglia di San Martino, a un passo dal confine svizzero, tra il 12 e il 15 novembre del 1943. (Per ascoltare la canzone:https://youtu.be/2He08P2JNco; per leggere il testo:  https://www.ildeposito.org/canti/se-non-ci-ammazza-i-crucchi).

Tra le prime canzoni della Resistenza, Valsesia appartiene, invece, al repertorio dei canti partigiani delle formazioni garibaldine di Cino Moscatelli, ovvero di combattenti ispirati da una consistente carica ideologica. Il motivo si ispira a una vecchia canzone irredentista, Dalmazia, Dalmazia, cantata dagli “arditi” e dai dannunziani. Successivamente, la stessa musica era stata adoperata per un altro testo, Frontiera, frontiera, inno di un corpo di fanteria alpina istituito nel 1937-38. Dopo l’8 settembre del 1943, alcuni reparti di alpini stanziati a Biella e nel vercellese, raggruppati nelle formazioni partigiane della Valsesia e del Biellese, rielaborano collettivamente il testo della canzone. L’ispirazione alla simbologia comunista è ben evidente nell’ultima strofa, dove compare un esplicito riferimento alla “bandiera rossa”. Tramandato oralmente, questo canto partigiano sarà ripreso a Torino negli anni Settanta, diffuso soprattutto tra gli studenti, in un momento storico in cui i valori della Resistenza saranno tornati in auge tra le nuove generazioni. (Per ascoltare la canzone: https://youtu.be/2W6n4j_7eOs; per leggere il testo: https://www.ildeposito.org/canti/val-sesia).

 Come è noto, allo sviluppo della resistenza i nazifascisti reagiscono con crescenti rappresaglie. Particolare ferocia caratterizza i due eccidi perpetrati nella cittadina-martire di Boves, in provincia di Cuneo, dove nuclei partigiani, garibaldini e di Giustizia e Libertà, avevano avviato le loro prime azioni subito dopo l’armistizio dell’8 settembre. La reazione delle SS non si fa attendere: il 19 settembre del 1943, 24 abitanti del paese vengono trucidati e 350 abitazioni bruciate. È il primo atto di rappresaglia contro la popolazione civile. Identica ferocia si ripeterà fra il 31 dicembre del 1943 e il 3 gennaio del 1944 con un secondo massacro seguito a un rastrellamento effettuato allo scopo di sconfiggere i partigiani. Il paese sarà di nuovo bruciato e si conteranno altre 59 vittime tra civili e combattenti. Al secondo eccidio è dedicato il canto, di autore ignoto, Non ti ricordi il trentun dicembre, adattato sulla musica di Addio, padre e madre addio, un canto della prima guerra mondiale. Per ascoltare la canzone: https://youtu.be/Os62pp_xvmc; per leggere il testo: https://www.ildeposito.org/canti/boves-non-ti-ricordi-il-trentun-di-dicembre).

Prima della diffusione di Bella ciao, Fischia il vento (nota anche come Soffia il vento) è il più conosciuto inno della Resistenza italiana, cantato ovunque, da formazioni partigiane diverse e senza limiti dialettali. Lo troviamo infatti in varie regioni dell’Italia settentrionale, senza che gli stessi partigiani ne conoscano l’origine. Il motivo della canzone è quello di Katiuscia, una melodia russa che risale al 1938 e parla del lontano amore di un soldato impegnato a difendere la sua terra. La canzone, in una sua versione partigiana, diventa ben presto uno degli inni dell’Armata Rossa sovietica. La versione italiana della canzone risale al 1943-44 e pare sia opera di Giacomo Sibilla, un partigiano di Oneglia (Imperia), il quale avrebbe ascoltato Katiuscia nell’estate del 1942, mentre si trovava prigioniero in Unione Sovietica, dove aveva combattuto con l’ARMIR. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, Sibilla entra a far parte di una banda partigiana che opera nella zona di Imperia, assumendo il nome di battaglia di Ivan. Successivamente i versi della canzone verranno modificati attraverso l’intervento di altri partigiani garibaldini, tra i quali il colonnello Felice Cascione, comandante partigiano, medico dell’ospedale di Oneglia, che darà il suo nome alla Seconda Divisione d’Assalto garibaldina, operante anch’essa nella zona di Imperia, medaglia d’oro al valor militare. Prendendo gradualmente coscienza delle ragioni degli ex nemici sovietici, i militari italiani che scelgono le file della Resistenza intendono esprimere nella canzone, nella quale non manca un evidente richiamo alla “madre Russia” da parte dei partigiani comunisti, la medesima ribellione all’invasore tedesco che i soldati sovietici esprimono in Katiuscia. La canzone conosce un notevole successo nel dopoguerra, grazie anche all’interpretazione di Milva, costituendo un punto di riferimento fondamentale per la memoria della lotta partigiana. La sua esplicita connotazione comunista tuttavia, evidente in particolare nei richiami alla “rossa primavera” e al “sol dell’avvenire”, ne limita la diffusione nell’Italia post-resistenziale “ufficiale”, dove tende piuttosto a prevalere una lettura unitaria e non di parte della guerra di liberazione: Fischia il vento viene pertanto “soppiantata” da Bella ciao, una canzone nella quale il richiamo di taglio risorgimentale all’“invasore” meglio si presta a legare il mito resistenziale a quello del “primo Risorgimento” nazionale. Anche Fischia il vento, insieme a Pietà l’è morta e ad altri canti partigiani, sarà inserita nel GUFI1965 nella raccolta I Gufi cantano due secoli di Resistenza, mentre nel 1993 il brano sarà riproposto in versione “celtica” dai Modena City Ramblers. Nel 1995, infine, nel clima di revival resistenziale legato alla reazione della sinistra contro la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, la canzone conoscerà un ulteriore arrangiamento da parte del gruppo rock degli Skiantos. (Per ascoltare la canzone: https://youtu.be/TeLAGblQhZQper leggere il testo: https://www.ildeposito.org/canti/fischia-il-vento).

Il tema della tortura, subita dai patrioti catturati dai nazifascisti, prevale invece nella canzone Quei briganti neri (1944), cantata dai partigiani della Brigata Zelasco, Divisione Coduri, operante in Liguria, e conosciuta anche in Val d’Ossola e in altre zone del centro-nord d’Italia. Essa nasce da un adattamento alla storia partigiana della vicenda dell’anarchico italiano Sante Caserio, che nel 1894 uccise a Lione il presidente della repubblica francese Sadi Carnot. (Per ascoltare la canzone: https://youtu.be/q-cyd6gDAMA; per leggere il testo: https://www.ildeposito.org/canti/quei-briganti-neri).

Gran parte delle canzoni partigiane nasce, come si è visto, dalla rielaborazione di canti precedenti, spesso della tradizione risorgimentale, a rimarcare ulteriormente la continuità ideale tra il “primo” e il “secondo” Risorgimento nazionale. È il caso di Portiamo l’Italia nel cuore, una canzone composta, stando alla testimonianza dell’ex-partigiano ebreo Silvio Ortona, nel gennaio del 1944, sulle note dell’Inno di Oberdan (Guglielmo Oberdan, un patriota triestino, arrestato e impiccato nel 1882 per aver attentato alla vita dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe). L’iniziativa è di un gruppo di partigiani piemontesi, impegnati nel sabotaggio della centrale elettrica di Pont St. Martin, in Valle d’Aosta. Le parole sono scritte dallo stesso Ortona, con la collaborazione di un altro partigiano di nome Banchieri. Ortona ricorda altresì che l’ultima strofa della canzone, rivelatrice dell’inequivocabile matrice marxista del gruppo partigiano, è considerata “facoltativa”, in nome della necessaria conciliazione tra la politica di partito e le esigenze di unità nazionale. (Per ascoltare la canzone: https://youtu.be/F37d0Nwd2II); per leggere il testo: https://www.ildeposito.org/canti/cosa-importa-se-ci-chiaman-banditi).

Alle Brigate Garibaldi, e più in particolare alla 3ª Brigata d’Assalto Liguria, che opera nella VI zona a Genova, appartiene Dalle belle città (nota anche come Siamo i ribelli della montagna), una delle poche canzoni originali della Resistenza. La brigata sarà quasi interamente distrutta il 6 aprile del 1944 durante un rastrellamento. Di 800 partigiani, in gran parte fucilati in località Benedicta (Alessandria) o al Passo del Turchino, oppure deportati nei lager, se ne salveranno circa 150, che andranno poi a formare il primo nucleo della Brigata Mingo, attiva e infine vittoriosa tra Liguria e Piemonte. L’autore delle parole della canzone è, secondo alcuni, Carlo Pastorino. Secondo altri è invece Emilio Casalini (Cini), insegnante elementare, militante comunista genovese e comandante partigiano del Quinto Distaccamento della Terza Brigata Garibaldi-Liguria, allora operante nella zona del monte Tobbio, sull’Appennino ligure-piemontese, mentre la musica è di Angelo Rossi (Lanfranco). La canzone, il cui stile di scrittura denota una discreta cultura in chi l’ha composta, nonché evidenti richiami a immagini della tradizione risorgimentale (“la schiavitù del suol tradito”), rievoca le motivazioni ideali che spingono numerosi studenti e operai (“lasciammo case, scuole ed officine”) ad abbandonare le proprie “belle città” (nel caso specifico si tratta di Genova) e scegliere i disagi della lotta partigiana sull’“aride montagne”, conquistando a duro prezzo, attraverso “stenti” e “patimenti”, quei valori di “giustizia” e “libertà” che ispirano la lotta partigiana. È significativo che, nel corso degli anni Sessanta, di fronte alla crescente esigenza di rendere sempre più unitaria l’immagine della Resistenza, siano stati espunti dalla canzone passaggi quali “viva Lenin!” e “comunisti l’ora s’avvicina... siam di Stalin l’armata forte e fiera”. Nel 1995 il canto, arrangiato dagli Ustmamò, un gruppo musicale nato nell’Appennino reggiano (il suo nome, nel BANDABARDOdialetto del luogo, significa “proprio adesso”), sarà inserito nell’album Materiale Resistente, una raccolta di canzoni partigiane realizzata in occasione di un concerto promosso dal Comune di Correggio (Reggio Emilia) per la ricorrenza del cinquantenario della Resistenza. Nel 2005 saranno invece i Modena City Ramblers e la Bandabardò a fornirne un’ulteriore versione moderna nell’album Appunti partigiani. (Per ascoltare la canzone: https://youtu.be/dKDvCIxZcSU); per leggere il testo: https://www.ildeposito.org/canti/dalle-belle-citta).

Il più famoso canto partigiano, conosciuto non solo in Italia, è senz’altro Bella ciao. Diverse tesi circolano intorno alle origini della sua musica. Le più remote sembrano risalire a una ballata francese del XVI secolo, entrata a far parte della tradizione folklorica piemontese (La daré d’cola montagna), trentina (Il fiore di Teresina), veneta (Stamattina mi sono alzata). Successivamente il motivo sarebbe stato adottato come canto alpino durante la prima guerra mondiale e poi trasmesso al repertorio delle mondine (o mondariso) della pianura padana e a quello partigiano dell’Appennino emiliano. La tesi della precedenza della versione delle mondine (riproposta, tra l’altro, nel 2002 da Francesco De Gregori e Giovanna Marini nell’album Il fischio del vapore) rispetto a quella partigiana, tesi sostenuta da Giovanna Daffini, mondariso e grande interprete della canzone popolare, non è tuttavia universalmente condivisa, dal momento che approfonditi studi degli anni Sessanta avvalorano la tesi che sarebbe stato invece il canto partigiano a ispirare quello di risaia, comparso non prima degli anni Cinquanta. Nell’aprile del 2008, il giornalista Jenner Meletti, in un articolo su La Repubblica, ha riferito che un ingegnere di Borgo San Lorenzo (Firenze) avrebbe per caso scoperto, in un CD di musiche yiddish acquistato a Parigi, la musica di Bella ciao in una canzone dal titolo Koilen, composta nel 1919 da Mishka Ziganoff, un ebreo di origini est europee emigrato a New York. Per quanto concerne il testo, sembra che i versi iniziali della strofa siano da attribuire alla ballata Fior di tomba, mentre l’inciso “o bella ciao” sarebbe da attribuire alla rima di alcune canzoni per bambini (La me nona l’è vecchierella; La ballata della bevanda soporifera). Anche sulla versione resistenziale di Bella ciao esistono diverse testimonianze. Un medico perugino, Vinci Grossi, riferisce di averla imparata durante l’avanzata partigiana su Bologna. Secondo altre versioni, invece, essa sarebbe nata nella Repubblica Partigiana di Montefiorino (una delle effimere repubbliche partigiane, durata solo 50 giorni, dalla metà di giugno all’inizio di agosto del 1944), sull’Appennino modenese-reggiano-toscano, in un vasto territorio con 50.000 abitanti, protetti da alcune migliaia di partigiani guidati dal comandante Armando. Le parole della canzone sarebbero state scritte da un anonimo medico partigiano detto Fiore, successivamente emigrato in Liguria. La circolazione di Bella Ciao risulta dunque circoscritta, tra l’estate del 1944 e la primavera del 1945, nella zona tra Castelluccio Modenese e Castelluccio Bolognese (dove numerosi partigiani si rifugiarono al termine della breve esperienza della Repubblica di Montefiorino) oltre che nelle Alpi Apuane e nel Reatino. Risulta invece poco conosciuta in Piemonte, Lombardia e Friuli. Dopo la liberazione, essa ha acquistato notorietà in varie regioni italiane, grazie alle esecuzioni delle bande socialiste e comuniste, avvenute in occasione di raduni e festival, e hanno cominciato a circolare anche sue versioni nei vari dialetti. La canzone ha conosciuto un grande successo al Primo Festival Mondiale della Gioventù e degli Studenti, tenutosi a Praga da metà luglio a metà agosto del 1947, con decine di migliaia di giovani di sinistra provenienti da settanta paesi. In tale occasione, Bella Ciao è stata cantata dai mille delegati italiani e tradotta in varie lingue. Analogo successo la canzone ha riscosso alla seconda edizione del Festival, tenutasi a Berlino nel 1948: la sua popolarità si è accresciuta grazie al battito delle mani che ha accentuato la partecipazione corale al canto. Da allora, Bella Ciao si è affermata come la canzone della Resistenza per antonomasia, ed è divenuta uno dei simboli della sinistra politica e sindacale negli anni della guerra fredda. A decretare la sua fortuna, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, ha contribuito poi il nuovo clima politico legato alla costituzione dei primi governi di centro-sinistra. La continua riproposizione dell’idea della Repubblica nata dalla Resistenza ha fatto sì che la canzone, grazie alla sua minore connotazione ideologica e ai suoi richiami al mito risorgimentale (in particolare il riferimento all’ “invasor”), si prestasse, più di Fischia il vento, maggiormente legata alla tradizione comunista, a rappresentare lo spirito di concordia e unità nazionale attorno ai valori dell’antifascismo e della lotta di liberazione, risultando gradita alle stesse forze armate. Tutto ciò le ha consentito di essere accreditata, a vent’anni dalla liberazione, come la canzone ufficiale della Resistenza, dando luogo a quella che Cesare Bermani ha definito “invenzione di una tradizione”. Dopo essere entrata a far parte del repertorio del gruppo torinese di Cantacronache, Bella ciao è uscita dai circuiti esclusivamente militanti e ha investito un più vasto pubblico, grazie a diverse interpretazioni: tra esse quella di Giorgio Gaber, Maria Monti e Margot, che l’hanno cantata nella trasmissione televisiva Canzoniere Minimo (ottobre-dicembre 1963); quella del Nuovo Canzoniere Italiano, proposta al Festival dei due Mondi di Spoleto del 1964; quelle dei Gufi e di Milva, entrambe del ‘65; e ancora quelle di cantanti meno “impegnati” come Gigliola Cinquetti, Anna Identici, bella ciaoClaudio Villa, Yves Montand. Cantata a squarciagola nei raduni partigiani, nelle manifestazioni studentesche e operaie di fine anni Sessanta e dei primi anni Settanta, protagonista del ritorno della canzone di protesta nei cortei no global, pacifisti e “girotondini” agli inizi del nuovo millennio, Bella ciao è stata spesso considerata una sorta di “inno” dei movimenti comunisti o anarchici, nonostante essa inneggi alla libertà in senso generale, senza riferimento ad alcun tipo di schieramento politico. Tra le interpretazioni più recenti del canto si segnalano quelle rock della Banda Bassotti, di Officine Schwartz e Modena City Ramblers (Materiale Resistente, 1995) e dei Gang. (Per ascoltare la canzone: https://youtu.be/4CI3lhyNKfo); per leggere il testo: https://www.ildeposito.org/canti/bella-ciao).

Accanto alle canzoni “della” Resistenza, è necessario sottolineare l’importanza, ai fini della ricerca storica, delle canzoni “sulla” Resistenza, la cui produzione è piuttosto intensa a partire dalla fine degli anni Cinquanta, e arriva fino all’inizio del nuovo millennio, coinvolgendo indifferentemente cantautori “impegnati”, gruppi rock e pop. Al di là dei riferimenti agli anni di Salò e alla lotta di liberazione, presenti in canzoni del repertorio “leggero” (si pensi a Le storie di ieri, 1974, di Francesco De Gregori, e a Lugano addio, 1977, di Ivan Graziani), il rilancio della canzone partigiana ha inizio negli anni Sessanta, grazie all’iniziativa di Cantacronache, del Nuovo Canzoniere Italiano e dell’Istituto Ernesto De Martino, che si manifesta, in particolare, nella pubblicazione di dieci album di Canti della Resistenza italiana da parte dei Dischi del Sole.
Proprio a Cantacronache si deve uno dei testi più suggestivi della canzone politica, Oltre il ponte (1958), scritto da Italo Calvino e musicato da Sergio Liberovici. La canzone richiama all’attenzione, in forma poetica, le motivazioni della scelta operata da tanti giovani in direzione della guerra partigiana. Composta a parecchi anni di distanza dalla fine della guerra, essa ricorda la militanza dello scrittore nella lotta di liberazione e avverte l’esigenza, comune all’intero movimento di Cantacronache, di trasmettere alle nuove generazioni (“con te, cara, che allora non c’eri”) i valori che hanno orientato quella scelta. Riallacciandosi a quanto aveva già affermato nel suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), anch’esso dedicato alla Resistenza, Calvino sottolinea la differenza di fondo che intercorre tra la scelta di coloro che stanno “dalla parte del riscatto”, per la libertà propria e dei propri figli, e per la costruzione di “un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi” (“tutto il bene”), e gli altri che invece combattono per perpetuare l’”odio” e il “furore” (“tutto il male”); tale visione “manichea” è tuttavia largamente attenuata dalla consapevolezza dei propri limiti (“non è detto che fossimo santi,/ l’eroismo non è sovrumano”). Ciò che prevale è comunque un inequivocabile messaggio di speranza nel futuro e un invito alla scelta consapevole di mettersi in gioco per il bene collettivo. Anche questo brano è stato reinterpretato dai Modena City Ramblers, in collaborazione con Moni Ovadia, nell’album Appunti partigiani (1995). (Per ascoltare la canzone: https://youtu.be/PJlAVidYtlM); per leggere il testo: https://www.ildeposito.org/canti/oltre-il-ponte).

ENDRIGOIspirata al tema storiografico della “Resistenza tradita” è invece la canzone di Sergio Endrigo La ballata dell’ex (1966). Raccontando la storia di un partigiano che, alla fine della guerra, si ritrova incolpato dell’omicidio di un “conte” e di un “podestà”, il testo del cantautore rivolge una violenta accusa contro la deriva trasformistica che sembra investire l’Italia del dopoguerra, con la “restaurazione conservatrice” degli anni Cinquanta e il “tradimento” degli ideali resistenziali da parte di chi, con troppa disinvoltura, è passato dall’altra parte (“son tutti al ministero...”): è qui evidente l’allusione ai socialisti che, sin dall’inizio degli anni Sessanta, dopo aver combattuto a lungo all’opposizione, al fianco dei comunisti, scelgono di condividere il potere con la DC nei governi di centro-sinistra. Altrettanto evidente risulta il riferimento ai regolamenti di conti e alle vendette partigiane, abbastanza frequenti nei giorni immediatamente successivi alla liberazione, come testimoniato anche dal romanzo di Carlo Cassola, La ragazza di Bube (1958-59), e che saranno oggetto di indagine, in particolare, di due libri di Giampaolo Pansa: Il sangue dei vinti (2003) e La grande bugia (2006). (Per ascoltare la canzone: https://youtu.be/wF6fkLTVubw); per leggere il testo: https://www.ildeposito.org/canti/la-ballata-dellex).

Nel corso degli anni Settanta, sull’onda delle lotte studentesche e operaie, la sensibilità nei confronti delle tematiche resistenziali continua ad essere molto forte, in particolare nell’ambito della canzone di protesta. Tra i gruppi musicali più attivi in tale filone, si distingue quello milanese degli Stormy Six. A loro si deve la canzone Gianfranco Mattei (1975), ispirata a una delle tante vittime della prigione di Via Tasso. Mattei è un professore universitario, che dal 1938 insegna chimica analitica quantitativa al Politecnico di Milano. Dal 1937 è entrato, insieme alla sorella Teresita, nel movimento antifascista lombardo e, dopo il 25 luglio del 1943, opera tra Firenze e Milano per tenere i contatti fra i gruppi di antifascisti attivi nelle due città. Dopo l’armistizio, si unisce ai primi gruppi di partigiani attivi nella zona di Lecco e in Valfurva, e subito dopo si trasferisce a Roma, dove riceve, dai dirigenti comunisti della capitale, l’invito a mettere la propria scienza al servizio della lotta partigiana. Di qui, l’incarico di organizzare, insieme allo studente di architettura Giorgio Labò, l’arsenale dei GAP in una casa di via Giulia, dove si confezionano ordigni esplosivi e bombe a mano, e di approntare efficaci azioni militari contro i nazifascisti. Ma l’1 febbraio del 1944, in seguito alla “soffiata” di una spia fascista, la Gestapo irrompe nella santabarbara e arresta Labò e Mattei. Il primo verrà fucilato a Forte Bravetta, trascinato dai carnefici davanti al plotone di esecuzione, in quanto incapace di reggersi in piedi, a causa delle torture stoicamente sopportate, mantenendo il silenzio davanti alle SS. Mattei, invece, nella notte tra il 6 e il BERTOLI7 febbraio del 1944, si impiccherà in una cella della prigione per il timore di essere incapace di reggere altre sevizie e di tradire i suoi compagni. (Per ascoltare la canzone: https://youtu.be/oLDVD737F0E); per leggere il testo: https://www.ildeposito.org/canti/gianfranco-mattei).

All’inizio degli anni Ottanta, ancora un’amara denuncia della “Resistenza tradita” (“la lotta mutata in sconfitta”), arricchita dal riferimento a vari eventi degli anni Cinquanta-Ottanta, è al centro di Nicolò (1982), una delle più riuscite canzoni del cantautore emiliano Pierangelo Bertoli. Come in un video, scorrono nella canzone le immagini della repressione delle lotte operaie e contadine del dopoguerra da parte della polizia di Scelba; i rigurgiti neofascisti del governo Tambroni; la rocambolesca fuga dell’ex ufficiale delle SS Herbert Kappler dall’ospedale romano del Celio (1977), fino alla terrificante strage di Bologna del 2 agosto 1980. A ripercorrere le suddette tappe della “lunga notte della Repubblica” (secondo l’efficace espressione di Sergio Zavoli) è un vecchio partigiano, che ha ancora nitide nella mente ben altre immagini: quella di un radioso “giorno d’aprile” (la liberazione), giorno di festa, con il fucile ancora tra le mani, con la terra che sembra “risorta”; e poi le prime delusioni, con il ritratto di Stalin (“fantasma coi baffi”) relegato “in soffitta”, la “fede” negli ideali che vacilla, l’abbandono da parte dei compagni del partito. Eppure “la gente ancora viva” non si arrende e testardamente continua la propria “guerra mai finita”. (Per ascoltare la canzone: https://youtu.be/QfLqsmgJ_Us; per leggere il testo: https://www.angolotesti.it/P/testi_canzoni_pierangelo_bertoli_3505/testo_canzone_nicolo_136495.html).

Nella seconda metà degli anni Novanta, infine, in un’atmosfera di revisionismo dilagante, il gruppo dei Modena City Ramblers, che si distingue per il suo stile “celtico-padano”, siBETTOLA propone di salvaguardare, attraverso la canzone, la memoria storica della lotta partigiana, in particolare quella combattuta tra le montagne e le campagne del reggiano, conferendo ad essa però un significato universale, che travalica i suddetti confini, accomunando in un’unica lotta tutti gli oppressi (dai partigiani agli indios ai mendicanti). Particolarmente toccante è L’unica superstite (1996), un brano che richiama alla memoria la strage della Bettola (una località delle colline attorno a Reggio Emilia), uno degli episodi più tragici della Resistenza. L’eccidio viene consumato la notte del 23 giugno del 1944, quando i nazifascisti, dopo uno scontro a fuoco con i partigiani, che tentano di far saltare un ponte in muratura, massacrano per rappresaglia trentadue persone, in gran parte sfollati: tra essi anche donne e bambini (uno di soli diciotto mesi). L’unica superstite, cui è dedicata la canzone, è Lilli (Liliana Del Monte), una ragazzina di undici anni. Della vicenda si parla in un libro dello storico Massimo Storchi (Combattere si può, vincere bisogna. La scelta della violenza tra Resistenza e dopoguerra. Reggio Emilia 1943-1946, Venezia, Marsilio, 1998). (Per ascoltare la canzone: https://youtu.be/EpaOKqx4fmg; per leggere il testo:
https://www.angolotesti.it/M/testi_canzoni_modena_city_ramblers_867/testo_canzone_lunica_superstite_27647.html).

 

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