Questo sito utilizza i cookies per migliorare l'esperienza utente. Continuando la navigazione accetti l'utilizzo.

 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

IL TEMPO DELLA FRAGILITÀ

OROLOGIO FILMMessa ai margini da una società che  afferma l’assenza del limite e la negazione del tempo biologico, la fragilità appartiene invece alla condizione umana. E può aiutarci a praticare la saggezza necessaria per proseguire il cammino della specie.

 

di EIDE SPEDICATO IENGO

 

A pensarci bene anche le parole, al pari degli individui, hanno un loro carattere che le distingue da tutte le altre: alcune sono molto corteggiate (successo, potere), altre esaltate (innovazione, tecnologia, competizione), altre celebrate (bellezza, ricchezza). Alcune sono impegnative (conoscenza, educazione), altre eticamente insopprimibili (uguaglianza, libertà), altre imprevedibili (fortuna, sorte). Alcune sono destabilizzanti (incertezza, insicurezza), altre disorientanti (malattia) e altre, di contro, confortanti (premura, religione, fede). Alcune sono inaccessibili (infinito), spaesanti (mistero) chimeriche (pace) e altre inconfutabilmente concrete (vita, morte). Alcune sono affidabili (amicizia), generative (amore), euforiche (passione), accomunanti (allegria) e altre, invece, drammatiche (guerra), velenose (violenza), ingiuste (disuguaglianza), tossiche (invidia, gelosia). Alcune sono austere (decoro, dignità), altre aggraziate (sensibilità), altre difficili da praticare (pazienza, tolleranza). E, poi, ci sono le parole fantasmatiche che non godono di cittadinanza sociale e abitano da sempre spazi appartati. La fragilità è fra queste.
Raramente pronunciata, difficilmente riconosciuta come un limite di sé, sfuggita, mascherata quando se ne ha consapevolezza, è una parola che nell’attualità sembra essere stata del tutto espunta dal vocabolario individuale e collettivo o circoscritta nell’ambito della malattia o dei disagi fisici o psicologico-caratteriali[1]. D’altronde, quale spazio potrebbe trovare negli attuali scenari sociali spregiudicati, irriflessivi, spocchiosi un vocabolo che allude all’instabilità, alla predisposizione ai cedimenti fisici, alla gracilità, alla mancanza di resistenza a determinati fattori, ovvero a espressioni rovesciate rispetto ai paradigmi valoriali in auge e ai modelli di socializzazione correnti? Verosimilmente pochissimo o addirittura nessuno.
Eppure la fragilità, che sembra stretta in una gabbia di carenze, di vuoti, di immaturità, non si riassume in questi soli significati. È anche e ben altro. È, per esempio, percettività sensibile, intuizione, empatia, delicatezza, comprensione, emozione, flessibilità. La presenza dell’uomo sulla terra è assicurata, non per caso, dalla labilità, ossia dalla sua capacità di adattarsi, di assorbire complessi meccanismi di interazione o interferenza fra sé e l’ambiente[2]. La fragilità, quindi, è una delle strutture portanti del vivere o, meglio, è una condizione dalla quale non può prescindere qualunque cosa viva[3]. L’uomo è una creatura fragile e la vita è caducità, vulnerabilità, precarietà. In un istante tutto può capitare e scompaginare scenari di certezze: basta un virus, un agente infettivo submicroscopico, per compromettere interi assetti economici, produttivi, sociali, civili, affettivi, relazionali.
Tuttavia, nel tempo, questa verità è stata progressivamente coperta d’ombra. L’uomo si è ubriacato di un utopico, incontenibile senso di onnipotenza e, perdendo il senso della misura, ha affidato la rotta della storia alla religione delle possibilità illimitate. Di qui la sacralizzazione della scienza e della tecnica; il divorzio fra le ragioni dell’umanità e i misteri della natura; la riduzione dell’ambiente a puro materiale da utilizzare (o, meglio, da saccheggiare) quasi fosse uno spazio inerte incapace di risposta; l’elezione a valore egemone dell’agire la cultura dell’oltre e del sempre di più.
Con questa scelta, superfluo il sottolinearlo, l’uomo ha automaticamente espunto dal proprio orizzonte il peso del tempo biologico, ovvero quel grande protagonista della storia naturale cui è legata la sua stessa storia e sopravvivenza, identificandosi con il tempo dell’orologio (quello della produzione e dei consumi). In breve: ha scelto «un ramo secco nell’albero dell’evoluzione, ha scelto la strada percorsa dai dinosauri. Il tempo danaro, il tempo dell’orologio non sono [infatti] i tempi che contano per instaurare un corretto rapporto con la natura. Paradossalmente l’orologio, simbolo dell’ordine, scandisce le ore del disordine, la frenesia del consumismo e della crescita della produzione e avvicina i tempi del disordine globale»[4]. Ossia quelli che stiamo drammaticamente vivendo, nei quali tutto sembra poggiare sulla instabilità, la dissipazione, la frammentazione, la discontinuità qualitativa.
L’antica persuasione che assegnava all’etica il compito di scegliere i fini e alla tecnica il reperimento dei mezzi per la loro realizzazione è, infatti, tramontata da un pezzo: dal giorno in cui il fare tecnico ha assunto come fini quelli che risultano dalle sue operazioni[5]. Ovvero, da quando la tecnica si è trasformata in una sorta di “entità” autonoma, creatrice di un mondo con sue proprie caratteristiche che abitua a contrarre prassi, consuetudini, desideri, ideazioni che hanno bisogno di lei per esprimersi. Lo dimostra l’opulenza tecnologica che domina le grammatiche e i linguaggi dell’industria, della cultura, della politica, della società, degli individui; lo confermano l’informatica e internet che hanno prodotto non solo nuove armature logiche e comportamentali, nuovi profili sociali, nuove individualità, nuovi orientamenti valoriali, ma anche cambiato l’organizzazione della società e le condizioni d’esistenza più di qualsiasi idea politica o progetto collettivo.
Un esempio per tutti: il diritto al lavoro, oggi tristemente non più tale. Si pensi agli effetti dell’elettronica, dell’automazione, dell’intelligenza artificiale che tratteggiano un futuro in cui non è più l’uomo a produrre beni, neppure in modo indiretto (assemblando pezzi o conducendo macchinari) dal momento che il lavoro è svolto direttamente ed in modo esclusivo «da robot o meglio da cyber-physical system, in grado di auto-apprendere e migliorare le proprie prestazioni. I primi effetti di tale rivoluzione sono un incremento della disoccupazione o quantomeno una stazionarietà nella crescita dell’occupazione in quasi tutti i Paesi, e più ancora un’accentuata polarizzazione nel mondo del lavoro, con l’espulsione delle figure con compiti routinari sia di basso che, per la prima volta, di medio livello»[6]. Qualunque siano gli scenari futuri (anche quelli più ottimistici che orientano a ritenere come giammai sostituibile la presenza degli umani nello spazio del lavoro) resta comunque il fatto che la rivoluzione digitale non solo cancellerà molta parte del lavoro oggi esistente, ma abituerà a ritenere politicamente corretta la subordinazione delle esigenze dell’uomo a quelle dell’apparato tecnico. Lo scenario, del resto, è già allestito: a dimostrarlo sono la primazia della tecnocrazia sulla scienza, della finanza sull’economia, dell’aumento di capitale sull’investimento lavorativo e produttivo, della strumentazione virtuale sulla comunicazione reale, della mera gestione dello Stato sulla vera progettualità politica[7], della vita digitale su quella umana.
A fare i conti con i problemi profondi di una società che cammina sul filo di un rasoio e finge di non accorgersi che è prossima al suo tramonto se non corregge le sue disfunzioni e non impara a praticare l’equilibrio e l’equità, può contribuire precisamente la fragilità. Questa espressione perenne e ineluttabile della realtà umana che, implicando il senso del limite come condizione strutturale dell’esistenza, aiuta per esempio a liberarsi dell’inessenziale, a svincolare l’esistenza dalla conferma che ci può dare solo ciò che è funzionale e utilitario, a guardarsi dalle espressioni di quel potere sempre più mobile, mutevole ed evasivo che ha bisogno per espandersi e dilagare precisamente della inconsistenza del pensiero e del sonnambulismo di massa.
La fragilità, dunque, non è un difetto. È, all’opposto, una strategia che bisogna imparare a praticare: in primo luogo perché sconfessa la filosofia del potere, «un’anomalia, un incomprensibile errore di prospettiva»[8] e, in secondo luogo, perché  obbliga ad aver cura della vita, ad abitare il mondo in base a schemi diversi da quelli abitudinari, a dare alle cose il giusto valore se non si vuole poi pagare tutto e con gli interessi.
Lo spazio di isolamento, in cui al momento si è costretti a vivere, è auspicabile dia inizio a una qualche stagione di consapevolezza collettiva capace di dar torto a quel modus agendi che ha congedato il principio di responsabilità; tacitato l’etica; letto il mondo dalla superficie. Ovvero è auspicabile si annunci una stagione di critica sociale in grado di dissipare quelle nebbie che hanno accompagnato l’uomo fin dal suo ingresso nel grande gioco della modernità, allorché si è scelto «Cartesio invece di Montaigne, la via del controllo razionale e tecnologico del mondo invece di quella della saggezza, di quel sapere che non si è mai proposto di esorcizzare il limite, ma ha continuamente dialogato con esso. Non sarebbe male se la modernità incominciasse a far vincere quel suo lato che non contrappone drammaticamente la luce e il buio, ma apprezza le mille sfumature che li collegano, che conosce l’ambivalenza del mondo»[9].
La saggezza, non casualmente, è sorella dell’umiltà, un valore epistemologico che, avendo in dispetto la dismisura, poggia sull’equilibrio, obbliga a sguardi più misurati, dà unità d’indirizzo alla vita, ha cura del pensiero meditante oggi messo prepotentemente all’angolo da quello calcolante che insegue senza tregua un’occasione dopo l’altra, ritiene imperdonabile e non difendibile ogni occorrenza mancata, non si pone interrogativi metafisici, né si interroga sull’enigma del mondo. Va da sé, aver coscienza della propria fragilità non cambia l’ordine delle cose, ma obbliga ad altre scelte, ad altre consapevolezze. Per esempio e per dirla con Franco Cassano, a non temere le ombre ma ad abituarci alla loro presenza, piuttosto che «stordirci di luce per poi tremare all’idea del buio che ci aspetta dietro l’angolo»[10].

[1] Anche in passato, a onor del vero, si insegnava a nascondere le debolezze e si identificava la fragilità con l’insuccesso.
[2] G. Palestro, L’uomo fragile. La condizione umana tra resistenza e resa, http://www.bioeticanews.it/luomo-fragile-la-condizione-umana-tra-resistenza-e-resa
[3] E. Borgna, La fragilità che è in noi, Einaudi, 2014.
[4] E. Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici, in Arancia blu, anno III, 2, 1992, p. 37.
[5] Si tratta di finalità che la tecnica non sceglie, ma ottiene come risultati delle sue procedure, e che l’etica si trova dinanzi come eventi non scelti da cui il suo agire non può prescindere. Cfr. Galimberti U., Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, 1999.
[6] Riccardi F., “Il lavoro che cambia”, in Alessandro Zaccuri (a cura di), Voci del verbo Avvenire, Vita e Pensiero, Milano, 2018, p. 84.
[7] Ravasi G., Verso una nuova antropologia, “Avvenire”, 20 maggio 2018.
[8] Andreoli V., L’uomo di vetro, la forza della fragilità, Rizzoli, 2008.
[9] Cassano F. Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo, il Mulino, 2001, p.45.
[10] Ibidem.

Per inserire un commento devi effettuare il l'accesso. Clicca sulla voce di menu LOGIN per inserire le tue credenziali oppure per Registrati al sito e creare un account.

© A PASSO D'UOMO - All Rights Reserved.