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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

IL CALCOLO DELLA FELICITÀ

ROBOT CAPPELLA SISTINALa macchina scientifico-tecnologico-economico-finanziaria impone all’uomo il suo orizzonte, obbligandolo ad essere cliente del supermercato planetario, e realizza una astratta semplificazione della umana complessità. Persino la potenza immaginativa di Dante viene piegata all’analisi di un algoritmo.

di NICOLA RANIERI

    NICOLARANIERI1La maschile ossessione del dominio – o volontà di potenza per paura dell’impotenza – accompagna e guida l’uomo occidentale dall’alba della razionalità. Ma diviene progressivamente esasperata in epoca moderna e contemporanea. Quando ormai non caratterizza più solo l’Occidente; essendo diventata planetaria.

    Per dominare bisogna rigorosamente dimostrare, prevedere, ridurre tutto a quantità. Le scienze infatti, se non quantificano, non sono tali.

    Fino ai primi anni del Novecento si riteneva che la scienza matematizzata dovesse comprendere anche ciò che attiene al bisogno e all’utilità; quindi, pure i fattori sociali, psicologici nonché quelli economici in quanto presentano risvolti psicosociali. Tuttavia, ancora si pensava che gli eventi intimi dovessero passare per l’apprezzamento di ciascuno e restare, pertanto, di ordine qualitativo.

    Oggi, invece, tende a scomparire qualsiasi apprezzamento soggettivo di un evento. Esterno o interiore che sia, deve essere quantitativamente misurabile e sottoposto a oggettiva verificazione. Pure l’intensità di una passione ardente finisce per coincidere con i dati statistici, con la maggiore o minore frequenza degli amplessi rispetto alla media. Pure la qualità poetica di Dante, la sua visionaria potenza immaginativa suscitata dagli occhi di Beatrice, si esaurisce nello studio algoritmico- informatico delle sole strutture quantitativamente ricorrenti nelle terzine della Divina Commedia. Ѐ in atto, insomma, una tale astratta semplificazione della umana complessità – sia fuori sia dentro di noi – che essa si riduce solo a una misurabile esteriorità oggettivisticamente nonché pubblicamente comunicabile, senza alcun residuo di ordine qualitativo.

    L’Homo oeconomicus sembra permeare di sé la teoria, la prassi, le aspirazioni, l’immaginario di ciascuno e di tutti.

    Quando venne enunciato nell’Ottocento da John Stuart Mill, sulla scia del suo maestro Jeremy Bentham, esso richiamava quel carattere di accordo fra utilità individuale e utilità generale: quell’assunto benthamiano della massima felicità per il maggior numero di individui, o quell’auspicio milliano di riforme finalizzate a una equa distribuzione della ricchezza. Invece, nel contemporaneo, viene inteso come soggetto dell’attività economica, come astratto individuo ridotto solo a motivazioni economiche allo scopo di massimizzare la ricchezza. Finisce così per coincidere con un unico orizzonte: ottenere per se stesso il massimo vantaggio. Ed è questo ormai il modo esclusivo di intendere il benessere; la cui massimizzazione vien definita dalla funzione matematica di utilità.

    Una simile utilità calcolata – essenzialmente amorale – prescinde dal fatto che si acquisti o si agogni l’acquisto di qualcosa di utile o di inutile. L’importante è comprare (o desiderare spasmodicamente di comprare) la massima quantità al prezzo più vantaggioso. In ciò consiste il razionalismo dell’Homo oeconomicus: il suo «calcolo della felicità», perfettamente in linea con la fondamentale legge capitalistica dell’accumulazione fine a se stessa, portata alle estreme conseguenze. Conseguenze già insite, però, nella sua origine: la pulsione verso il benessere materiale. Dettata, questa, anche negli animali dall’istinto di conservazione – di accumulare per sopravvivere. Solo che gli uomini, avendo perduto l’istinto e, dunque, pure quel senso di benessere derivante dal sentirsi satolli, sono in preda alla frenesia dell’accumulo senza limiti. Perciò il calcolo per aumentarlo a dismisura – incondizionatamente – li domina, sotto forma di economicità utilitaristica. Ma che non attiene soltanto all’economia. L’economicità è uno dei principi fondativi pure del moderno pensiero scientifico, le cui radici affondano nella filosofia tardo medioevale. Infatti, molti secoli prima di Mill e Bentham, il cosiddetto “rasoio di Ockham” istituisce il criterio secondo il quale è necessario semplificare le ipotesi allo scopo di minimizzare gli sforzi e massimizzare i risultati. Ovvero, anche in scienza (per dirla spregiudicatamente in termini economicistici odierni) costi bassi e alti profitti.

    Nel moderno razionalismo, intriso di una forte accentuazione empiristica, confluiscono pertanto sia gli intenti economicistici dello sviluppo capitalistico (prima artigianale-manifatturiero, poi industriale-finanziario su scala planetaria) e sia una meccanicistica visione scientifico-filosofica del mondo sempre più legata al passaggio epocale dalla tecnica alla tecnologia. Teoricamente e praticamente in simbiosi, quest’ultima, con la scientificizzazione del lavoro e con lo smisurato aumento della produzione economica nonché del consumismo dell’utile e dell’inutile. In breve, dell’accumulo fine a se sHOMO OECONOMICUStesso. Talché, nel tripudio dell’Homo oeconomicus, la forsennata ricerca dell’utilità (scambiata per benessere o addirittura per felicità) viene matematicamente misurata, prevista e resa funzionale al dominio, alla competitività, alla vittoria schiacciante su tutti gli altri e sulla natura. Su ogni forma di sapere che non sia precisamente misurabile. Ne risulta dunque un insieme di scienza, tecnologia e riduzionismo – tanto logico quanto economico e produttivo. Tutto nel segno della ipercomputazione, di una sorta di ideale computer fornito di un preciso programma da eseguire.

    Del resto, si può forse introdurre qualcosa in un programma informatico senza che lo si pensi secondo una logica opportunamente adatta a tal fine, e senza che lo si scriva in un linguaggio comprensibile alla macchina appositamente costruita per eseguirlo?

    Lo si deve, perciò, rendere algoritmicamente sequenziale in base a precisi criteri logici, assunti quali regole prescrittive. Un algoritmo che non soddisfacesse tali condizioni non verrebbe compreso dalla macchina. La quale può compiere solo passi elementari, non ulteriormente scomponibili, univoci, finiti, in un tempo definito e con un risultato determinato, inoppugnabile, evidente, valutabile, efficiente. D’altro canto, se così non fosse, che macchina sarebbe?

    Il guaio, però, sta in ciò che ne consegue. Ogni pensiero (o qualsiasi logica), che non si basi sulle medesime regole e non persegua una siffatta paradigmaticità programmatica, appare indegno di questo nome. Perché viene ritenuto incompatibile con l’efficienza, la terminabilità, l’univocità parcellizzata. Insomma, non rispondente all’economicismo utilitaristico. Pertanto, il non calcolabile – ossia ciò che è ambiguo, simbolico, polisenso, ineffabile, logicamente sfuggente – va respinto in quanto obsoleto, inaccettabile, eversivamente luddista poiché rompe gli schemi e gli ingranaggi della efficientissima macchina (scientifico-tecnologico-economico-finanziaria) lanciata a folle velocità verso le magnifiche sorti delle progressive nevrosi da prestazione di tutti gli umani meccanicamente scattanti, ginnici, palestrati nel corpo e nella mente. Smaniosamente invasati di ottimismo ottuso. Sempre connessi, senza altro orizzonte al di fuori di quello comprensibile alla macchina. E protesi a cercare l’algoritmo definitivo che programmi un procedimento  risolutore, per via informatica, di tutti i problemi. Pure di quelli che richiedono la formulazione delle diagnosi più complesse.

    Certo, in alcuni alberga il sospetto che nemmeno l’algoritmo degli algoritmi, perfino quello più potente –  capace di imitarci, di imparare dai nostri dati e dedurre dai dati tutto il sapere del mondo – non riuscirebbe comunque a ridurre le disuguaglianze. Mentre altri sono magari piuttosto ottimisti su questo punto. Ma, di sicuro, quasi tutti concordano nel considerarlo neutro. Come dire che eticità e giustizia non dipendono dall’algoritmo in sé, ma dall’uso che se ne fa.

    Può darsi. Tuttavia, non è proprio così.

    Da quando scienza, tecnologia, interesse economico-finanziario sono diventati quasi inestricabili, gli algoritmi, i modelli matematici e i programmi informatici regolano le vite di tutti. Decidono con apparente imparzialità tempi, modi di lavorare, di pensare, di agire. Benché costruiti secondo regole e astratti simboli, non sono affatto obiettivi. (E quand’anche lo fossero, l’obiettività è propriamente il disumano luogo astratto della massima alienazione). Tutt’altro che neutri, discriminano come e più degli umani. Sotto la maschera della presunta purezza scientifica, potenziano interessi e intenzioni ideologiche. Lontanissimi dalla matematica pura, sono prevalentemente frutto di opinioni adattate e tradotte in formalistico linguaggio matematico. Tant’è che l’assolutismo della calcolabilità rafforza, massimizza l’efficienza selezionatrice e discriminatoria, obnubilando ogni possibile istanza di equità o di giustizia. E ciò attraverso la maschera della oggettività dei dati, appresi in modo automatico dall’algoritmo. Il quale sa di noi quello che di noi è riducibile a dato.     

    Se tutti, non solo restiamo sempre “connessi”, ma esistiamo in funzione della macchina, di sicuro  possiamo diventare nient’altro che una astratta forma esteriorizzata, una banca ambulante di dati. Proprio così, infatti, veniamo considerati, studiati, manipolati dalle molteplici compagnie di marketing allo scopo di indirizzarci negli acquisti, di convincerci che i nostri desideri più intimi possono venir soddisfatti dal planetario supermercato di cui siamo obbligatoriamente clienti. Tutti uguali, prevedibili, misurabili – visto che al di fuori dell’aspetto quantitativo null’altro ci resta.

    Di una simile “democrazia” mercantile-finanziaria sono agenti essenziali gli algoritmi e i programmi computerizzabili. Ovvero la logica, il pensiero, la visione del mondo, il modello educativo e politico ad essi funzionali.

    Sicché, per mezzo di essi, siamo matematicamente governabili quali automi programmati per il raggiungimento di ben determinati scopi economici, entro un preordinato meccanismo asettico, efficientissimo. Finalmente una perfetta “democrazia” sembra realizzabile, nella misura in cui la perpetua connessione, o la totale simbiosi con le macchine, ci rende nient’altro che un insieme complesso di dati valutabili secondo esatti criteri. Una “democrazia” siffatta vorrebbe estinguere sul nascere (mentre li alimenta a dismisura) tutti i conflitti, rendendoli prevedibili, per dominarli. Possibilmente non con la forza delle armi, ma con quella della scienza tecnologicizzata e volta al servizio dell’Homo oeconomicus. E dunque della ricerca di un algoritmo definitivo, risolutore di qualsiasi problema, se e quando gli umani diventeranno totalmente automi. Privi cioè di quella interiorità, ricolma di musicale armonia dei contrari, che invece li renderebbe profondamente pensosi. Sfuggenti a qualsiasi misurazione. Come pure altrettanto sfuggenti al principio stesso di non-contraddizione, su cui tutta l’impalcatura della occidentale razionalità – intesa quale ossessione maschile di potenza – si regge.

 

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