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IL CAPITALISMO COME RELIGIONE

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NICOLA RANIERIIl culto dell’utilitarismo e la riduzione degli Stati e della politica al servizio dei mercati finanziari. L’attualità di Walter Benjamin (prima parte).

 

È un frammento postumo, scritto nel 1921 quasi in forma di appunti mai trasformati in un testo compiuto. Eppure – a distanza di cento anni – risulta più che mai attuale, anzi di una tale evidenza da mostrarsi proprio nell’oggi in maniera pressoché indiscutibile, come avviene tutte le volte che qualcuno FIRMA NICOLAha il coraggio e l’acutezza di vedere le cose con sguardo apocalittico: non perché lui sia un profeta, ma perché gli altri non vedono quello che sta già sotto i loro occhi.
Walter Benjamin (poco meno che trentenne quando scrive il testo incompiuto) esordisce affermando che il capitalismo serve essenzialmente ad appagare le preoccupazioni, i tormenti, le inquietudini a cui un tempo davano risposta le religioni definite come tali. Perciò il capitalismo, non solo ha una conformazione religiosamente condizionata – come pensa pure Max Weber –, ma è un fenomeno strutturalmente religioso. Della religione, infatti, ha una delle caratteristiche essenziali: il culto (senza tregua e senza pietà) dell’utilitarismo portato all’estremo.
Sicché, contrariamente a quanto sostiene Max Weber, il cristianesimo dell’età della Riforma protestante non ha favorito il sorgere del capitalismo: si è tramutato nel capitalismo, come religione di puro culto e senza dogma.
BENJAMINUn culto in cui l’impegno dell’adorante si fa talmente estremo che non vi sono più giorni feriali. Son tutti di festa. E in essi si dispiegano tali e tante pompe sacrali che il culto, invece di togliere il peccato o di espiarlo, genera di continuo la colpa.

Ne deriva una mostruosa coscienza colpevole che mai si redime. Anzi, universalizza la colpa e perciò incorpora Dio stesso nella medesima colpa a tal punto inespiabile da formare un tutt’uno con questo vero e proprio movimento religioso che è il capitalismo: proteso come esso è fino alla colpevolizzazione di Dio né più né meno di quella dell’uomo. Così ogni speranza si obnubila e il capitalismo, anziché alla sbandierata trasformazione migliorativa del mondo, tende inesorabilmente alla sua distruzione. Perché, essendosi fatto strutturalmente religioso e in modo storicamente inaudito, il capitalismo stravolge financo la speranza, tramutandola in un fatale espandersi della disperazione come stato permanente di un mondo in cui ogni trascendenza – umana o divina – è caduta.
Ma Dio non è morto. È bensì incluso nel destino dell’uomo.
Proprio di questa metamorfosi dell’umano pianeta in una casa della disperazione – nella assoluta solitudine della sua orbita e nel lutto del cielo vuoto – proprio di questa si nutre, non a caso, l’ethos di Nietzsche. Il comportamento del superuomo infatti, nel mentre accoglie pressoché esplicitamente la religione capitalistica, inizia anche ad adempierla. Perciò il debordante vitalismo del superuomo (privo di conversione) cresce per incremento costante fino al cielo, che sembra esplodere per via della troppo umana volontà di potenza: talmente ipertrofica e protesa a trasvalutare tutti i valori da mutarsi – NIETZSCHEper contrappasso – in una altrettanto smisurata colpa inespiabile. Perché il crescendo esplosivo non si invera in un autentico salto apocalittico, ma si sposta sempre più in là pur di rinviare il momento della rivelazione, del cambiamento radicale, della metànoia che implicherebbe il convertirsi: il vedere-riconoscere come un simile destino di distruzione sia inscritto nel carattere stesso del capitalismo.
Il suo dominio è così totale (secondo Benjamin) che con questa religione della disperazione finiscono per essere solidali – magari loro malgrado – non solo Nietzsche ma pure gli altri due grandi profeti della modernità.
L’uno è Freud, la cui teoria psicoanalitica appartiene a tal punto al dominio sacerdotale del culto capitalistico che il rimosso – quale rappresentazione peccaminosa – finisce per essere il capitale su cui l’inferno dell’inconscio paga gli interessi. L’altro è Marx, dato che perfino nel suo pensiero il capitalismo che non si converte diviene – con gli FREUDinteressi semplici e composti, che sono funzione della colpa – immediatamente socialismo.
In breve: l’ambiguo concetto demoniaco di colpa-debito-interessi da pagare è la base granitica da cui tutto muove, ingenerando l’inferno di una espiazione senza fine.

Se il capitalismo è una religione, lo si può quindi definire in termini di fede.
«Fede è il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo e ad essa ci affidiamo».
Su tale presupposto, Giorgio Agamben incentra il suo acutissimo testo intitolato Un commento, oggi alla tesi sostenuta da Walter Benjamin.
Il capitalismo è una religione fondata sulla fede degli adepti.
Dunque, esso «crede nel puro fatto di credere, nel puro credito» tant’è vero che il suo Dio è il denaro; e la banca – siccome fabbrica e gestisce credito – ha preso il posto della chiesa.
Tutto questo rende ancor più evidente la fondatezza dell’assunto benjaminiano. Perché il capitalismo finanziario odierno ha portato alle estreme conseguenze quel che il suo frammento di cento anni fa intuiva; e ora più che mai risulta indubitabile.
MARX«Una società la cui religione è il credito – poiché crede soltanto nel credito – è condannata a vivere a credito».
Aziende, famiglie, individui sono spinti ad averne sempre uno spasmodico bisogno.
Così: «la Banca è il sommo sacerdote che amministra ai fedeli l’unico sacramento della religione capitalista: il credito-debito». [Le frasi virgolettate sono di Agamben, i corsivi sono miei].

La storia del capitalismo in Occidente, dopo essersi parassitariamente sviluppata sul cristianesimo – in modo particolare sul protestantesimo in chiave soprattutto calvinista e puritana –, ha finito per tramutarsi essenzialmente in quella del parassita. Ossia del capitalismo come religione. Ma di una religiosità ridotta unicamente a idolatria con il passaggio dal Dio trascendente al Dio terrestre, dallo spirito delle sante icone delle diverse religioni alle idolatrate banconote dei diversi Stati.
E oggi, nell’epoca della moneta unica europea, gli Stati di prevalente religione protestante (sedicenti frugali e rigorosi) tendono a voler imporre a quelli di tradizione differente «l’unico sacramento della religione capitalista: il credito-debito».
Il che comporta, altresì o innanzitutto, la riduzione sia degli Stati e sia della politica al servizio dei mercati finanziari. In una parola: del denaro (quale unico Dio) trasformato integralmente in merce.
Sicché il capitalismo come moderna religione consiste ormai nel feticistico culto delle merci o del denaro (quale merce sovrana) per avere o smaniosamente concupire tutte le merci possibili e immaginabili, ricolme come esse sono di quell’effimero quanto abbagliante luccicare simbolico che attrae e sospinge le masse adoranti a un diuturno recarsi in pellegrinaggio al supermercato globale, facendo perfino sacrifici inauditi e indebitandosi a più non posso pur di acquistare tutto e sempre, a ogni ora del giorno e della notte, in una continua festa – isterica e collettiva – delle pompe sacrali dello shopping, nel ripetersi di un rituale compulsivo dettato dall’unica legge del mercato planetario: produrre-consumare-produrre in maniera che lo sviluppo non si arresti e l’immondizia cresca fino alla volta celeste.
Il neocapitalismo è così totalizzante – pervasivo sia dei molti sia dei singoli – che pare impossibile uscire da questo vero e proprio “oppio dei popoli” e degli individui.
Walter Benjamin, infatti, già cento anni fa riteneva irriformabile il capitalismo, se non attraverso una radicale rottura: che lui chiamava conversione o salto apocalittico.
Sì, ma all’interno di quale concezione della storia?

(1.continua)

 

Le foto di Benjamin, Nietsche, Freud e Marx risultano di pubblico dominio.