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LE MANI SULLA CITTÀ

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ROBERTOLa speculazione edilizia connessa all’urbanizzazione selvaggia, lo stravolgimento delle città, l’intreccio tra potere politico ed interessi privati nel film di Francesco Rosi e nella canzone di Adriano Celentano.

Tra i gravi problemi indotti dalla crescita economica e dall’emigrazione, nell’Italia dei primi anni Sessanta, c’è quello dell’urbanizzazione selvaggia. L’espansione delle città avviene infatti, in questi anni, in totale assenza di piani regolatori, e favorisce la speculazione e il disordine urbano. È in tale FIRMA LEOMBRONIcontesto che maturano, in particolare, lo stravolgimento della capitale (il cosiddetto “sacco di Roma”, con il crescente degrado delle borgate periferiche della città), la devastazione della collina napoletana del Vomero, e gli scempi edilizi di Palermo, dove, tra il 1959 e il 1963, il conferimento dell’assessorato ai Lavori Pubblici a discussi personaggi, come Salvo Lima e Vito Ciancimino, lascia emergere evidenti collusioni tra potere politico e mafia.
La speculazione edilizia, in particolare nel meridione e a Napoli, costituisce il motivo centrale del “film-pamphletLe mani sulla città (1963) di Francesco Rosi. La vicenda si svolge nella città partenopea (che tuttavia non è mai nominata), dove un imprenditore edile privo di scrupoli, consigliere comunale della Destra (è evidente l’allusione al Partito Monarchico di Achille Lauro), realizza lucrosi affari corrompendo la giunta comunale. Realizzato con la collaborazione dello scrittore Raffaele La Capria e del giornalista Enzo Forcella, il film di Rosi,  costruito in bianco e nero nel suo stile consueto (quello del cinema politico d’inchiesta, che non rinuncia a servirsi anche di materiale documentario), esce in un anno ricco di grandi eventi, a livello internazionale e nazionale: il pontificato di Papa Giovanni XXIII, il “disgelo” tra il blocco occidentale e quello sovietico, la morte di John Fitzgerald Kennedy, i primi dischi dei Beatles e dei Rolling Stones, la tragedia del Vajont. Definito dal critico cinematografico Alberto Crespi “la tragedia greca URBANIZZAZIONE SELVAGGIAdella Napoli del XX secolo, anni Sessanta, ‘regno’ di Achille Lauro e dei suoi alleati politici”, esso nasce in seguito a un lungo e rigoroso lavoro svolto dal regista, il quale assiste per mesi alle sedute del consiglio comunale di Napoli, ne studia i verbali, e stabilisce un costante rapporto con la città, analizzandone accuratamente gli scempi edilizi e urbanistici. Il suo obiettivo principale è quello di denunciare il devastante connubio tra potere politico e interessi privati, che, in pieno boom economico, favorisce la cementificazione indiscriminata della città (mostrata anche attraverso efficaci riprese aeree), legalizzando uno dei più gravi episodi di malcostume della nostra Storia nazionale. Una didascalia, all’inizio, recita significativamente: “I personaggi e i fatti sono immaginari, ma autentica è la realtà che li produce”. Con Le mani sulla città, dunque, Rosi rilancia con forza il ruolo del cinema di protesta, affiancando, di fatto, le battaglie politiche e sociali condotte contemporaneamente da settimanali come Il Mondo e L’Espresso”. Lungi dal ricercare un’ambigua e poco sincera “imparzialità” nei confronti dell’argomento trattato, il regista si schiera apertamente, suscitando, ovviamente, numerose polemiche, e attirando su di sé accuse di faziosità dagli ambienti della Destra e del Centro, ma anche di cedimento al “riformismo” del neonato Centro-Sinistra da una parte della Sinistra di opposizione. Il quadro illustrato da Rosi è impietoso e desolante, e mostra una classe politica completamente corrotta, priva di ogni dignità istituzionale, collusa con la camorra ed esclusivamente dedita ai più deteriori compromessi, al solo scopo di mantenere il potere. Tale classe politica costituisce, d’altro canto, l’espressione più genuina e fedele di una borghesia meridionale parassitaria che, attraverso un’efficace retorica, spaccia per altruismo e filantropia i propri loschi interessi, legati alla speculazione edilizia. Una delle scene finali, con le autorità politiche e religiose che danno il via all’inaugurazione del nuovo agglomerato urbanistico, evidenzia il mesto pessimismo di cui l’intero film è permeato, giustificato dalla consapevolezza di vivere in una società dove ormai solo poche voci si alzano contro l’annientamento della legalità e della giustizia. Tale pessimismo, tuttavia, si attenua alla luce del successo elettorale comunista alle elezioni della primavera del 1963, che spinge Rosi a modificare in parte il finale del film: in un’intervista rilasciata a L’Unità nel 1975, il senatore del PCI Carlo Fermariello, che nel ‘63 era consigliere comunale e segretario della Camera del Lavoro di Napoli, e che aveva partecipato al film interpretando proprio la parte di un consigliere d’opposizione (che inizialmente, nelle intenzioni del socialista Rosi, avrebbe dovuto essere un rappresentante del PSI), ricorda che La Capria propose di aggiungere un’ulteriore scena finale, volta a ridimensionare la sconfitta delle Sinistre in consiglio comunale, nel corso della quale il suddetto consigliere di opposizione si rivolgeva all’assessore gridandogli contro: “Tu forse ti illudi che tutto sia rimasto come prima. Invece le cose stanno cambiando... I vostri sudditi stanno prendendo coscienza dei loro diritti di cittadini”.
celentanoAll’urbanizzazione selvaggia dei primi anni Sessanta, e al conseguente carico di devastazione del paesaggio italiano (in questo caso la periferia milanese), si ispira anche una celebre canzone di Adriano Celentano, Il ragazzo della via Gluck (1966), bocciata al Festival di Sanremo ma ampiamente premiata dal mercato discografico. Il brano esce in un anno (il 1966, appunto) che segna una svolta nelle tematiche affrontate dal “molleggiato”, quando la sua esibita fede religiosa tende a coniugarsi con una battaglia ecologica, dietro la quale emerge la nostalgia di un mondo destinato a scomparire. Ispirata al folk-rock del giovane Bob Dylan, e apertamente autobiografica, la canzone si basa su un immaginario dialogo, nel quale il cantautore rivive la propria infanzia immedesimandosi in un amico che lascia la periferia e trova il successo in città. La via Gluck, quella in cui Celentano era nato e aveva trascorso la sua infanzia, era, ancora negli anni Cinquanta, un complesso di case, officine artigiane e magazzini, circondato da prati e vialetti alberati, all’interno di una periferia metropolitana non ancora deformata dalla speculazione edilizia. Quando però, dopo otto anni, il ragazzo torna alla sua prima casa, con l’intenzione di comperarla, prende tristemente atto dell’avvenuta distruzione, in nome del progresso, dei luoghi della sua infanzia, della mostruosa avanzata del cemento, e della scomparsa dell’ambiente fisico e umano nel quale era vissuto. Il critico musicale Gianni Borgna intravede in questa canzone il rispecchiamento di un Paese che, si sta rapidamente allontanando da un’angusta dimensione provinciale e rurale, sperimentando contemporaneamente sulla propria pelle i guasti di un certo tipo di “sviluppo”. Pochi mesi dopo, nello stesso anno 1966, Giorgio Gaber, amico di Celentano, comporrà un’ironica e surreale Risposta al ragazzo della via Gluck, nella quale il protagonista vive in un palazzo fatiscente che verrà demolito per fare posto a un prato, ritrovandosi in penose condizioni economiche ed esistenziali.

https://youtu.be/_sYDfESbJAY

(Coro) Là dove c’era l’erba ora c’e una città.

Questa è la storia
di uno di noi
anche lui nato per caso in via Gluck
in una casa fuori città
gente tranquilla che lavorava.

Là dove c’era l’erba ora c’è
una città
e quella casa in mezzo al verde ormai
dove sarà.

Questo ragazzo della via Gluck
si divertiva a giocare con me
ma un giorno disse: “vado in città”
e lo diceva mentre piangeva
io gli domando: “amico non sei contento?
vai finalmente a stare in città
là troverai le cose che non hai avuto qui.
Potrai lavarti in casa senza andar
giù nel cortile”.
“Mio caro amico” disse “qui sono nato
e in questa strada ora lascio il mio cuore
ma come fai a non capire
ch’è una fortuna per voi che restate
a piedi nudi a giocare nei prati
mentre là in centro io respiro il cemento
ma verrà un giorno che ritornerò
ancora qui
e sentirò l’amico treno che
fischia così... ua ua”.
Passano gli anni ma otto son lunghi
però quel ragazzo ne ha fatta di strada
ma non si scorda la sua prima casa
ora coi soldi lui può comperarla
torna e non trova gli amici che aveva
solo case su case catrame e cemento.

Là dove…

Non so non so perché continuano
a costruire le case
e non lasciano l’erba, non lasciano l’erba
non lasciano l’erba.
E no, se andiamo avanti così
chissà come si farà
chissà chissà come si farà.