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IL SESSANTOTTO AMERICANO

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ROBERTOLa seconda parte del viaggio nella contestazione negli anni Sessanta del Novecento attraverso la musica, i film e le rappresentazioni della gioventù statunitense.

 

Un riferimentFIRMA LEOMBRONIo ancora più esplicito alla contestazione sessantottina compare in Fragole e sangue (1970) di Stuart Hagmann. Il titolo del film, girato a San Francisco, e uscito l’anno dopo Easy Rider, si deve alla sprezzante dichiarazione rilasciata da un rettore universitario statunitense: “non mi preoccupo degli studenti più di quanto mi preoccupi delle fragole”. In piena protesta studentesca contro il razzismo e la guerra nel Vietnam, uno studente, biondo e con gli occhiali, rampollo di buona famiglia, piuttosto simpatico e non privo di humour, inizialmente apolitico e scettico nei confronti della contestazione, preoccupato solo di conquistare ragazze e di allenarsi per la regata del proprio college, matura una coscienza rivoluzionaria nel vivo dell’occupazione del campus, tra aggressioni poliziesche, scioperi, sit-in e happening di varia natura, in cui i sostenitori della non-violenza, ammiratori di Robert Kennedy, di Neil Young e dei Beatles, si mescolano con i “rivoluzionari”, seguaci di Mao Tse-tung e di Che Guevara. Incentrato prevalentemente sulla love story del protagonista, nella migliore tradizione hollywoodiana, il film rischia di fornire una versione edulcorata del fenomeno della contestazione. Ciononostante esso, tratto da un diario di James Simon Kunen e ispirato agli scontri avvenuti alla Columbia University, è comunque il più rappresentativo tra quelli che affrontano il tema della protesta universitaria negli Stati Uniti. Prodotto negli anni della presidenza Nixon, quando le conquiste sociali strappate nel ‘68 sembrano ormai rimesse in discussione, e mentre monta la reazione della “maggioranza silenziosa”, accompagnato da un sottofondo musicale costituito da musiche della West Coast e dei Beatles, esso assume, nel finale, un vero e proprio tono di denuncia della brutale e spropositata violenza poliziesca, con tutto il suo carico di manganelli, elmetti, gas lacrimogeni e sirene spiegate dei cellulari, esercitata contro ragazzi inermi. In tale contesto, il sacrificio finale della vita del ragazzo, che sancisce tragicamente la sconfitta del movimento, lo trasfigura oggettivamente in “eroe”. Pur non raggiungendo il successo commerciale di Easy Rider e de Il laureato di Mike Nichols (1967), Fragole e sangue costituisce una delle più riuscite espressioni del rinnovamento del cinema hollywoodiano di quegli anni, legato in gran parte alla maggiore presenza nelle sale di un pubblico giovanile, ben diverso da quello famigliare che le affollava nel dopoguerra e nei primi anni Sessanta.
Altrettanto significativo, come tentativo di interpretazione del ribellismo giovanile nell’America di quegli anni, e della sua critica ideologica nei confronti del consumismo materialistico, è Zabriskie Point, realizzato nel 1970 da Michelangelo Antonioni. Girato interamente negli Stati Uniti, il film è accolto con ostilità da buona parte del pubblico americano, che lo accusa di fornire un’interpretazione parziale e distorta della gioventù americana, rappresentata come una generazione perduta di sfaticati e drogati ribelli. In realtà, in esso, gli interessi di Antonioni rimangono prevalentemente legati alla dimensione del sogno e ai temi, a lui congeniali, della fuga, del deserto, del caso, del fallimento. Ciononostante, si tratta ugualmente di un illustre esempio di film di critica politica (particolarmente diffuso in quegli anni nella cinematografia europea), in cui il regista condivide la causa delle nuove generazioni contro una società consumistica destinata a esplodere per cedere il posto a nuove forme di vita. Attorno alla vicenda personale dei protagonisti, c’è un paesaggio, fatto non solamente di montagne, deserto e foreste di cactus, bensì anche di ghetti, di gente che soffre e si ribella. Nel film emerge, dunque, un quadro nel quale ben si evidenziano le contraddizioni dei due volti dell’America: quello razzista del venditore di armi (che fornisce al giovane una pistola purché la usi contro i neri) e quello degli studenti, impegnati e superficiali al tempo stesso. I riferimenti al Sessantotto risultano particolarmente evidenti nello sguardo della cinepresa che osserva la prima riunione studentesca, nella sequenza dello scontro con la polizia, nella radio che parla della guerra nel Vietnam, e nel più generale contesto sociologico e ideologico in cui il film è calato. Particolare attenzione il regista riserva al carattere repressivo e disumanizzante del potere e dei meccanismi della “persuasione occulta”, un fenomeno indagato a fondo negli anni Sessanta dal sociologo americano Vance Packard e dai filosofi della Scuola di Francoforte, richiamato nel film dalla continua presenza di cartelloni pubblicitari, spot promozionali e manichini, simboli di un’umanità ormai ridotta a livello puramente virtuale. Ma le immagini di maggiore efficacia simbolica, entrambe calate in una dimensione decisamente onirica (non senza un evidente influsso della pop art), sono due. La prima è quella, accompagnata dall’esecuzione di pezzi per chitarra di Jerry Garcia dei Grateful Dead, delle coppie di amanti che, per una sorta di germinazione spontanea, si moltiplicano nel deserto: essa costituisce un palese omaggio alle teorie sulla liberazione sessuale e alla pratica del love-in, particolarmente diffusa nei raduni giovanili di fine anni Sessanta, ma anche un’efficace rappresentazione del motivo della fuga di entrambi i protagonisti dall’integrazione, oppressione e “reificazione” a cui li costringe la loro vita banale nella città-mostro, dalla mercificazione dei valori (di cui costituisce grottesca espressione il turista che vorrebbe aprire un drive-in nella Death Valley), alla ricerca di un luogo (prevalentemente mentale) nel quale ritrovare la giusta misura della propria esistenza. La seconda è quella, su colonna sonora dei Pink Floyd, della spettacolare esplosione finale, ripetuta più volte e da diversi punti di vista, della villa dell’amante della ragazza, emblema del capitalismo trionfante, insieme a tutti i simboli del benessere (dai frigoriferi ai giocattoli): una scena che allude all’apocalisse dell’odiata società dei consumi, un sogno che fa da contraltare all’impotenza reale dei protagonisti di modificare la realtà o di fuggire definitivamente da essa.
Il rifugio nell’uso degli stupefacenti costituisce una delle componenti più discusse e problematiche del movimento di contestazione sessantottino. A esso sembra fare riferimento, in maniera più o meno esplicita, Mr. Tambourine man, una canzone composta da Bob Dylan nel 1965, all’età di ventiquattro anni, probabilmente ispirata alla scuola dei poeti maudits francesi. Incluso nell’album Bringing It All Back Home, e portato al successo, con una versione folk-rock, dal gruppo dei Byrds, il brano, per i suoi pregi musicali e la sua poeticità visionaria (non priva di un sottile esoterismo), è considerato uno dei più celebri del repertorio folk del cantautore americano, nonché dell’intera musica rock degli anni Sessanta. Nel testo alcuni hanno intravisto un possibile invito all’uso di sostanze stupefacenti: infatti il termine tambourine, pur denotando una marca di sigarette americane di quegli anni, nel gergo di New York allude allo spacciatore di droga, in particolare marijuana. Di qui, le roventi polemiche scatenate dall’uscita del brano, in un momento in cui, negli Stati Uniti, è particolarmente intensa la lotta contro la droga. Per tali motivi, la canzone è esclusa dalla radio e dalla televisione. Dylan nega la legittimità della suddetta interpretazione del brano, e preferisce fornirne una spiegazione puramente metaforica, secondo la quale il tambourine man non sarebbe altri che colui che interviene in aiuto di chi desidera fuggire da una dolorosa realtà. Tuttavia, nel 1995, il film Dangerous Minds di John N. Smith ipotizzerà che la canzone possa trattare di un viaggio ipnotico, dovuto a sostanze stupefacenti. Lo stesso Dylan, d’altronde, ammetterà di essersi ispirato alla figura di un musicista che suonava un tamburino, ma anche a un viaggio compiuto personalmente da Los Angeles a New York, nel corso del quale avrebbe trasferito carichi di marijuana da un ufficio postale all’altro.

https://youtu.be/OeP4FFr88SQ

Hey! Mr. Tambourine Man
play a song for me,

I’m not sleepy and
there is no place I’m going to.

Hey! Mr. Tambourine Man
play a song for me,

in the jingle jangle morning
I’ll come followin’ you.

Though I know that evenin’s empire
has returned into sand,

vanished from my hand,
left me blindly here to stand
but still not sleeping.

My weariness amazes me,
I’m branded on my feet,

I have no one to meet
and the ancient empty street’s
too dead for dreaming.


Hey…

Take me on a trip upon
your magic swirlin’ ship.

My senses have been stripped,
my hands can’t feel to grip,

my toes too numb to step.
Wait only for my boot heels

to be wanderin’.
I’m ready to go anywhere
I’m ready for to fade

into my own parade.
Cast your dancing spell my way,

I promise to go under it.

Hey …

Though you might hear laughin’
spinnin’, swingin’ madly across the sun,
it’s not aimed at anyone.
It’s just escapin’ on the run
and but for the sky
there are no fences facin’.

And if you hear vague traces
of skippin’ reels of rhyme

to your tambourine in time
it’s just a ragged clown behind.

I wouldn’t pay it any mind,
it’s just a shadow you’re

seein’ that he’s chasing.

Hey…

Then take me disappearin’
through the smoke rings of my mind,

down the foggy ruins of time
far past the frozen leaves.

The haunted, frightened trees
out to the windy beach,

far from the twisted reach
of crazy sorrow.

Yes, to dance beneath the diamond sky
with one hand waving free,

silhouetted by the sea
circled by the circus sands,

with all memory and fate
driven deep beneath the waves,

let me forget about today until tomorrow.

Hey...

Traduzione italiana di Stefano Rizzo

Ehi mister tambourine
suona una canzone per me
non ho sonno
e non ho un posto dove andare
ehi mister tambourine
suona una canzone per me
nel tintinnare del mattino
camminerò con te
sebbene sappia che l’impero della sera
è ritornato sulla sabbia
svanito dalla mia mano
lasciandomi in piedi accecato
ma ancora senza sonno
la mia stanchezza mi sorprende
i miei piedi sono segnati
non ho nessuno da incontrare
e le antiche strade vuote
troppo morte per sognare
portami in un viaggio sulla
tua nave magica ondeggiante
i miei sensi sono denudati
le mie mani non sentono la presa
i piedi insensibili per camminare
aspettano soltanto che i tacchi
incomincino a vagare
sono pronto ad andare ovunque
sono pronto a svanire
nella parata di me stesso
getta verso di me il tuo incantesimo di danza
io mi sottoporrò
anche se sentirai risate
rotolare ondeggiando pazze verso il sole
non sono rivolte a nessuno
fuggono semplicemente corrono
ed eccetto per il cielo
non hanno barriere davanti
E ne senti confuse tracce
di brandelli di rime saltellanti
al tempo del tuo tamburello
non hanno dietro che un clown lacero
non gli presterei attenzione
è solo un’ombra quella che vedi 
che lui sta inseguendo
allora portami scomparendo
attraverso gli anelli di fumo della mia mente
giù per le rovine nebbiose del tempo
lontano oltre le foglie gelate
gli alberi incantati spaventati
fuori sulla spiaggia ventosa
lontano dalla portata contorta
del dolore senza senso
sì danzare sotto il cielo di diamante
con una mano libera ondeggiante
stagliato contro il mare
circondato dall’anfiteatro di sabbia
con tutti i ricordi e il fato
seppelliti profondi sotto le ondefammi dimenticare l’oggi fino a domani

ehi...

I tumulti esplosi a Chicago, tra l’aprile e il maggio del 1968, hanno ispirato invece una delle più famose canzoni di Phil Ochs, dal singolare titolo William Butler Yeats Visits Lincoln Park and Escapes Unscathed (William Butler Yeats visita il Lincoln Park e ne fugge incolume). La genesi del brano, nel quale l’autore si immedesima nella figura del grande poeta irlandese, vissuto a cavallo tra Otto e Novecento, è legata al vero e proprio choc di cui egli rimane vittima in seguito ai tragici e convulsi eventi che si susseguono nel 1968 negli Stati Uniti (dall’assassinio di Martin Luther King a quello di Bob Kennedy all’elezione di Nixon alla presidenza) e in particolare ai violenti scontri verificatisi appunto nel Lincoln Park di Chicago, nel contesto della Convention democratica. Il trauma è talmente forte che Ochs affermerà testualmente di essere “morto a Chicago nel 1968”: l’avvenimento inciderà non poco sui suoi futuri disturbi psichici, determinando in lui uno stato di profonda depressione.

https://youtu.be/aANyVh77kII

As I went out one evening to take the evening air
I was blessed by a blood-red moon.
In “Lincoln Park” the dark was turning.

I spied a fair young maiden and a flame was in her eyes
and on her face lay the steel blue skies
of “Lincoln Park”, the dark was turning... turning.

They spread their sheets upon the ground just like a wandering tribe.
And the wise men walked in their Robespierre robes
through “Lincoln Park” the dark was turning.

The towers trapped and trembling, and the boats were tossed about
when the fog rolled in and the gas rolled out.
From “Lincoln Park” the dark was turning.

Like wild horses freed at last we took the streets of wine
but I searched in vain for she stayed behind.
In “Lincoln Park” the dark was turning… turning.

I’ll go back to the city where I can be alone
and tell my friend she lies in stone.
In “Lincoln Park”...

Phil Ochs - Where Were You In Chicago?

Oh, where were you in Chicago?
You know I didn’t see you there
I didn’t see them crack your head or breathe the tear gas air.
Oh, where were you in Chicago?
When the fight was being fought
Oh, where were you in Chicago?
‘Cause I was in Detroit.

“That’s about the movement psychology.”

Traduzione italiana di Riccardo Venturi

Uscito una sera per prender l’aria vespertina
fui benedetto dal saluto d’una luna rosso sangue.
Nel Lincoln Park stava calando il buio.

Scorsi una bella fanciulla con una fiamma negli occhi,
sul suo viso i cieli d’un azzurro freddo come acciaio.
Del Lincoln Park, calava il buio, calava...

Stesero i lenzuoli sul terreno proprio come una tribù errante
e i saggi camminavano vestiti da Robespierre.
Calava il buio su tutto il Lincoln Park.

Le torri intrappolate e tremanti, le barche scosse qua e là
quando la nebbia rotolò dentro e il gas rotolò fuori.
Calavano le tenebre dal Lincoln Park.

Come cavalli selvaggi alfine liberati, prendemmo le strade dove si beve
ma cercai invano, perché lei era rimasta indietro.
Calava il buio nel Lincoln Park...calava...

Tornerò in quella città dove posso stare solo
e dirò al mio amico che lei giace sepolta.
Calava il buio…

Phil Ochs – Dov’eri, a Chicago?

Oh, dov’eri a Chicago?
Lo sai che non ti ci ho visto,
non li ho visti romperti la testa o respirare i lacrimogeni.
Oh, dov’eri a Chicago
mentre si combatteva la battaglia?
Dov’eri a Chicago?
Perché io ero a Detroit.

“Questa è sulla psicologia del movimento”.

2.fine
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