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LAVORO E DIGNITÀ

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PRIMO MAGGIONata dalle lotte per le 8 ore di lavoro, la festa del Primo Maggio simboleggia il cammino di emancipazione sociale e culturale dei lavoratori. La lezione, ancora inascoltata, della Scuola di Francoforte.


di ROBERTO LEOMBRONI

 

Primo maggio 1886. A Chicago, una manifestazione promossa per la conquista delle otto ore finisce con un eccidio di lavoratori. Da allora quella data è diventata un simbolo. Il 20 luglio del 1889, a conclusione del congresso socialista di ROBERTOParigi, nasce la Seconda Internazionale, che approva la risoluzione con la quale si indice per il primo maggio dell’anno successivo una manifestazione internazionale, con l’obiettivo di conquistare le otto ore lavorative per i lavoratori di tutto il mondo. Gradualmente, il primo maggio comincia a essere celebrato come Festa dei Lavoratori in numerosi Paesi del mondo.
L’appello è prontamente raccolto anche dal Partito Operaio Italiano, nato a Milano nel 1882 ed embrione del futuro Partito Socialista Italiano. «Vieni o Maggio t'aspettan le genti / ti salutano i liberi cuori / dolce Pasqua dei lavoratori / vieni e splendi alla gloria del sol». Così recita il bellissimo Inno del Primo Maggio, scritto dall’anarchico Pietro Gori nel 1892, sull’aria del Nabucco di Giuseppe Verdi.
La Festa del Primo Maggio nasce dunque in stretta relazione con la rivendicazione delle otto ore di lavoro. «Colla giornata di otto ore di lavoro avremo otto ore per riposo e otto ore per istruzione, educazione e ricreazione», è scritto in un Manifesto dei lavoratori milanesi di fine ‘800. Come pure che, con le otto ore, «aumenterà il bisogno di lavoratori, e molti, che oggi sono condannati alla disoccupazione, troveranno il desiderato lavoro». Insomma, lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti” è già presente, sia pure in termini diversi, sin dagli albori del movimento operaio organizzato. La classe lavoratrice inizia la lunga marcia per lasciarsi alle spalle le condizioni di schiavitù cui l’aveva condannata la prima rivoluzione industriale. Sin dagli anni ’30 del XIX secolo, in Gran Bretagna, erano nati movimenti che rivendicavano la diminuzione dell’orario di lavoro, in particolare per le donne e i ragazzi. È tuttavia solo verso l’ultimo quarto del secolo che, grazie all’ascesa dirompente delle sue organizzazioni sindacali e politiche (socialiste e anarchiche), il movimento operaio getta le basi di quello, che nel corso del ‘900, pur tra varie battute d’arresto, è destinato a diventare il moderno welfare state.
Né va sottovalutata l’enfasi posta, nel suddetto Manifesto, sull’esigenza di “istruzione” e “educazione” che attraversa l’intero movimento dei lavoratori. Necessarie soprattutto per aggirare i limiti posti dalle varie legislazioni elettorali, che impongono un minimo livello di alfabetizzazione per accedere al diritto di voto. Non a caso le Camere del Lavoro e le sezioni socialiste, in quegli anni, fungono anche da luoghi di acculturazione di una classe che vuole emanciparsi dalla condizione di plebe ignorante e subalterna.
Abbiamo, dunque, a che fare con due problematiche, quella della riduzione dell’orario di lavoro e quella della crescita culturale dei lavoratori, che accompagneranno le lotte operaie per tutto il XX secolo. Nella seconda metà del secolo, dopo la sconfitta del nazi-fascismo (in Italia il regime aveva cancellato la festività del primo maggio, sostituendola con quella del 21 aprile, Natale di Roma), la conflittualità operaia esploderà nuovamente. E negli anni del boom economico e della contestazione sessantottina, il tema della riduzione dell’orario lavorativo tornerà prepotentemente alla ribalta. Ciò avverrà anche grazie all’elaborazione teorica portata avanti dai filosofi dalla Scuola di Francoforte, in stretta relazione con le travolgenti innovazioni apportate nei processi produttivi dall’avvento delle nuove tecniche. Herbert Marcuse, in particolare, rileverà come il medesimo sviluppo tecnologico e l’automazione dei processi produttivi abbiano creato le “premesse oggettive” per una forte riduzione della quantità di energia investita nel lavoro “alienato, monotono e frustrante”, a vantaggio del lavoro “creativo”, secondo un modello che si richiamerà all’utopismo ottocentesco del socialista francese Charles Fourier (1772-1837). La tecnica, dunque, secondo Marcuse, potrebbe essere trasformata da strumento di dominio in mezzo di liberazione. Se ciò non accade, la responsabilità ricade su un’organizzazione produttiva assolutamente irrazionale, poiché non funzionale alle esigenze dell’uomo ma a quelle della produzione e del dominio, in altri termini, alla dittatura del “pensiero unico” del mercato e della deregulation.
Altrettanto forte sarà la spinta all’emancipazione culturale delle classi lavoratrici, in particolare in Italia, dove, grazie alle lotte dell’ “autunno caldo” del 1969, diverrà legge il diritto dei lavoratori a usufruire di 150 ore per il diritto allo studio.
Quel lontano primo maggio di fine ‘800 ha, dunque, scatenato un processo che, ancora oggi, è ben lungi dall’essere concluso. Purtroppo sembra che, su entrambi i terreni, si siano piuttosto fatti preoccupanti passi indietro. L’analisi di Marcuse appare sempre più confermata: a fronte di uno sviluppo tecnologico (informatica, robotica) ben più impetuoso rispetto a quello degli anni ’60 del secolo scorso, non si assiste a una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, bensì all’intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro, soprattutto nella forma di una crescente precarizzazione. E la scomparsa dell’operaio-massa, con la conseguente atomizzazione e delocalizzazione dei processi produttivi, rende più debole il potere di contrattazione e determina la graduale rinuncia al diritto alla cultura e al miglioramento della qualità della propria vita.
Si spera che le parole spese dai dirigenti sindacali nelle recenti manifestazioni del primo maggio in tutta Italia segnino l’inizio di una svolta, che però sembra di difficile realizzazione se confinata in un ambito puramente nazionale. Sarebbe bene che tali problematiche fossero al centro dell’attuale campagna per le elezioni europee. Urge un nuovo internazionalismo.

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