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LA CITTÀ TATUATA

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PALLADINILa pelle delle mura di città è sempre stata intesa come una pagina dove depositare tracce di vissuto dei suoi abitanti nel tempo: graffiti, slogan della politica e dello sport, dichiarazioni, disperazione, denuncia.

MAPALa stessa evoluzione della tecnica e della comunicazione di massa ha affiancato e superato il decoro architettonico, affidato ad affreschi, mosaici, rilevi nati con le opere, d’intesa con i progettisti: dapprima la illuminazione elettrica (le “city lights” con cui Chaplin designò la dimensione metropolitana ma a cui Mario Praz attribuiva la perdita  di certe atmosfere romane); poi la grande cartellonistica, con le gigantografie di merci o divi (come la Anita Ekberg di Fellini in “Boccaccio 70”) o con le brillanti immagini e scritte mutanti di Times Square o Piccadilly Circus, dove conferiscono il carattere ai luoghi, fino a cancellarne gli edifici; ma più spesso installandosi disordinatamente nella città incompiuta, attenta alla miglior visibilità dalla strada, in spregio delle consolidate prospettive di ambienti urbani o naturali. Addirittura sugli interminabili restauri si montano dei messaggi visivi, magari contrastanti con gli edifici sottostanti, adibiti al culto o alle sedi del potere. I regimi politici del ‘900 se ne accorsero, con le grandi scritte degli slogan o arruolando fior di artisti per realizzare enormi dipinti murali: il Messico con il “Muralismo” di Orozco, Siqueiros e Rivera; l’URSS con la decorazione di treni e città in festa o con la pittura monumentale degli anni ‘30; l’Italia con la celebrazione del regime di Sironi o Cambellotti. Movimenti impetuosi ma alternativi tra loro: la figurazione commerciale, volta ad occupare le visuali più frequentate, in funzione anti urbana ( salvo elevarsi a riferimento paesistico: si pensi ai tori spagnoli, installati per il brandy Osborne, ora simbolo del Paese); le grandi imprese pittoriche coordinate con l’architettura, concepite come parte della costruzione urbana.
E’ stato nel dopoguerra, quando molte città si dilatarono in metropoli, che comparve una diffusa attitudine (soprattutto giovanile) a realizzare sui muri  una scrittura continua , fatta di lettere , segni, campiture, linguaggi cifrati, simboli di appartenenza. Era la Street Art ed esprimeva l’impasto di disagio urbano e contestazione, l’esistenza di sottoculture alternative e di bande contrapposte, il bisogno di trascendere una stratificazione di classe STREET ARTriconoscibile nelle vite e nelle parti che la città non destinava alla sua ribalta. Per realizzarla  si rischiavano notti in guardina, mazzate dei vigilantes, gambe rotte ed anche la vita per raggiungere i posti in alto, calarsi con le corde, saturare di colore le fiancate dei treni.
  La critica (ma soprattutto il mercato) si accorse anche di loro e dall’indistinto popolo dei “graffitari” emersero le personalità più evidenti (o più valorizzate);  Jean- Michel Basquiat o Keith Haring, solo per ricordarne alcune, legate alla figura di Andy Wharol, per essi tramite verso la cultura  mainstream. Le loro opere entrarono in molte case di lusso ma può ancora capitare che siano distrutte in qualche ritinteggiatura; è il caso di Bansky, l’anonimo autore che, mentre le sue opere si battono nelle aste (in cui si inscena la distruzione in diretta, moltiplicandone il valore), vede cancellarne altre a Cheltenham (Inghilterra), in occasione di una ristrutturazione. Il travaso tra la strada e le gallerie d’arte è sempre più frequente ma resta, in loro, la iniziale alterità rispetto ad una città ed una società ostile.
 Più recentemente compare un fenomeno inedito, di segno ambivalente: su iniziativa di comunità locali o, più spesso, delle pubbliche amministrazioni si commissiona la realizzazione di grandi pitture, con scopi decorativi o commemorativi di figure legate alla storia locale o nazionale ed oltre. Perciò su pareti cieche di periferia compaiono grandi ritratti di Maradona, della vittima di un attentato, o di una lontana star, al fianco di un intreccio vegetale o ad un volo di tucani; ma anche scritte, dipinti e altarini dedicati a camorristi che a volte vengono rimossi e ne rinascono altri. Insomma una espressività popolare contraddittoria, sostenuta e a volte suggerita dai poteri pubblici; essa si applica soprattutto dove la città presenta le sue crepe: errori urbanistici, invadenti opere pubbliche, falansteri che non ricordano manutenzione. Per far questo, oltre agli artisti di strada, nascono figure di selezionatori, attuatori, critici più o meno punk; nasce un neo-Muralismo  come settore  organico,  che sostanzialmente si propone come arte pubblica ma non più dentro una visione progettuale della città come fu quello novecentesco, né ad essa alternativo come si pose programmaticamente la Street Art; diverso dall’Arte Ambientale ( che lo disconosce) o dalla Land Art consapevolmente misurate – con alterni esiti- sulla  scala urbana o del paesaggio in una dialettica di modificazione spaziale. Gli Enti locali hanno mostrato di gradire e con loro fondazioni bancarie ed altri erogatori di spesa: servono relativamente pochi denari per un grande impatto mediatico ed un rimedio palliativo alle ferite urbane. Certo, gli interventi si propongono come stimolo per future riorganizzazioni urbane (che la loro stessa presenza potrebbe ostacolare, una volta che la critica ne abbia decretato il valore): domani arriverà la città, si ristrutturerà il quartiere (forse in occasione della prossima onda di “gentrificazione”). Intanto si coltiva un decoro politicamente corretto assumendo i contestatori di ieri e si sgonfia un po’ la pressione.
C’è chi non ci sta, tuttavia; come a Bologna dove nel corso di una notte frenetica Blu, un importante autore di murales, ha cancellato i suoi graffiti prima che la potente fondazione bancaria cittadina  li  staccasse dai muri  per una mostra sulla Street Art in un museo; lo ha fatto come reazione all’alienazione dell’arte dal contesto e dalla stessa intenzionalità dell’artista, come se essa potesse vivere fuori dall’interazione con i suoi destinatari.
 Insomma l’arte urbana appare come un campo di battaglia per l’egemonia, dalla quale, tuttavia, l’urbanistica resta esclusa: troppo lenta per messaggi che vogliono colpire gli immaginari mutevolmente magari cancellati, alla bisogna, da una mano di calce. Più o meno consapevolmente si dà per superata la grande prova di costruire la città contemporanea che ha animato il ‘900 e si opera, piuttosto, per rimedi a posteriori. Un’artista vietnamita nota come Ngoc Like Tattoo (ma sembra che ce ne siano ormai diversi) nasconde le cicatrici derivanti da incidenti o menomazioni sui corpi con tatuaggi per lo più floreali. Si sostiene che aiutino le persone a riacquistare la fiducia in se stesse; che tornerà, tuttavia, solo quando esse avranno ormai accettato la perdita dell’armonia precedente cercando di costruirne una nuova.

 

La foto Hosier Lane Street Art è di Sdeclan82 (licenza Creative Commons CC BY-SA 4.0)