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L'ANTITEATRO

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ZI ANGELOUn anziano contadino ci mostrò come la parola possa restare strumento umano per gli esseri umani e, al contempo, che la comunicazione non consegue i suoi scopi tramite il solo lessico.  

 

FIRMA SANDROAl termine della prima serata, affidammo il compito di annunciare lo spettacolo della sera successiva a Zi’Angelo, l’anziano contadino e maestro della narrazione orale che sarebbe stato in scena con noi del Piccolo Teatro del Me-ti anche la sera dopo. Si sarebbe trattato però di precisare che lo spettacolo si sarebbe tenuto in un altro spazio: l’anfiteatro della medesima cittadina.

Chi meglio di lui, che come ogni vero narratore aveva una straordinaria quanto immediata capacità di empatia quali che fossero il contesto sociale, le persone, gli spazi?

Ma ecco che nel suo annuncio pubblico l’anfiteatro divenne l’antiteatro. Disse proprio così: lo spettacolo del giorno successivo si sarebbe tenuto “nell’antiteatro”.

L’ “anfiteatro” evidentemente non apparteneva al suo lessico. E tuttavia egli “ne aveva fatto qualcosa”.
La parola restava per lui uno strumento umano per gli esseri umani, anche a dispetto dell’essere secolarmente piegata a ribadire le differenze di classe. Si rifiutava di soccomberle. E d’altra parte, in quanto narratore orale, sapeva benissimo che la comunicazione è ben lontana dal conseguire i suoi scopi tramite il solo lessico.

L’antiteatro. Con il passare del tempo ho pensato e penso che tutto il nostro piccolo e pur lungo cammino potrebbe essere letto (anche) secondo questa chiave. Ovvero come un tentativo conscio ed inconscio di andare “oltre” il teatro, a rischio persino di andarvi “contro”. Tanto più se si pensa all’idea unica di teatro ancora oggi largamente prevalente nel senso comune (molto più di quanto si immaginerebbe e a dispetto dello straordinario lascito del Novecento teatrale), ovvero: i ruoli rigidi (“attore”, “spettatore”…), lo spazio deputato con i suoi orari altrettanto deputati, il teatro solo come “spettacolo”, lo spettacolo come “prodotto”, ecc.
Capimmo – e lo penso ancora - che paradossalmente il racconto orale è molto più avanti di questo teatro e ne contiene il radicale superamento, pur precedendolo storicamente. Anzi non lo capimmo, fu lo stesso pianeta racconto a portarci sul confine: non quello tra teatro e racconto ma quello tra rappresentazione e vita. Un equilibrio delicatissimo tra il troppo noto e l’ignoto  nuovo. Basta poco e ti ritrovi in una sorta di nulla teatrale oppure – ed è il caso di gran lunga migliore – in qualcosa che non ha ancora un nome. E questo è sempre un gran bel segno.

Ora dovrei descrivere questa cosa senza nome. Ma il teatro non lo si “spiega” né lo si racconta: lo si fa. E, arrivati a quel punto, noi non abbiamo potuto più “farlo”.