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L'ALFABETO DELLA CURA

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eideIl linguaggio dell’incontro, connesso alle inclinazioni positive del nostro corredo biologico, trova difficoltà. I diversi fattori che lo ostacolano stanno compromettendo la tenuta del sistema sociale. Un cambio di passo non è utopia, ma necessità.

 

Amare l’uFIRMA SPEDICATOmanità, non è una gran fatica: faticoso è amare l’uomo della porta accanto”, “Io amo l’umanità… È la gente che non sopporto”. Questi aforismi, pronunciati da due noti personaggi dei fumetti, Mafalda e Linus, documentano in modo eloquente quanto esplicito che la socialità è claudicante e gli atteggiamenti accoglienti, cordiali, ospitali (fuori da utopistiche espressioni di solidarietà generica e generalizzata e di episodiche dichiarazioni di cura nei confronti altrui) rinviano, nell’attuale fase storica, a signifìcanti senza significato, a parole vuote facili da pronunciare ma non altrettanto da praticare e, meno che meno, capaci di tradursi in patrimonio quotidiano e collettivo. Ovvero,  e per dirla con Zygmunt Bauman[1], le abilità occorrenti per comprendersi paiono diventate merce rara, sebbene le  inclinazioni positive facciano parte del nostro corredo biologico.
Perché, viene spontaneo chiedersi, il linguaggio dell’incontro si esprime con difficoltà o non si esprime affatto? Quali motivi lo ostacolano? A quanto può rilevarsi dall’esperienza e dalla letteratura sull’argomento a frenare le espressioni di comprensione reciproca concorrono più fattori: la logica egocentrica, per esempio, che educa alla “cultura della freddezza”; l’individualismo difensivo e blindato che addestra a non superare il livello del proprio benessere o, al più, quello delle reti parentali o della propria tribù di riferimento; la cultura presentista del “tutto e subito” che educa alla morale edonistica e penalizza la pazienza e la perseveranza nello spazio relazionale; l’avarizia etica che dà linfa a esistenze sciatte, svigorite, prive di fremiti e di tensioni quanto esperte nel triceramento di ghetti di auto-protezione e nell’attivazione di accurati distanziamenti da qualsivoglia espressione di coinvolgimento personale; l’incuria a praticare confronti onesti fra posizioni anche lontane fra loro; il progressivo svuotamento dei processi e dei FINESSEcontenuti della socializzazione che in passato si incaricavano di offrire regolazioni sociali e obbligazioni individuali; la diffusa impopolarità della società come responsabilità morale.
Quanto accennato segnala che i vocaboli cura, disponibilità, sensibilità, comprensione, gratuità e altri dello stesso timbro riguardano una particolare postura (etica, educativa, intellettuale) appannaggio di minoranze sempre più circoscritte. E non potrebbe essere altrimenti: le espressioni della relazionalità inclusiva sono “porte strette” o, meglio, modalità comportamentali rovesciate rispetto alle mappe morali, cognitive, sociali, educative in auge del tempo che abitiamo.
Ovviamente, richiamare alla opportunità di un modello di vita in cui prevalgano l’intuizione, la cordialità, l’intelligenza del cuore, ossia quel complesso di doti che Pascal definiva esprit de finesse, non significa sognare l’utopia di un’esistenza senza antagonismi, ruvidità, divergenze, contrasti (la vita quotidiana è costellata di microconflittualità, di scosse alle quali ci si adatta abbastanza bene), ma solo allertare sulla circostanza che la prevalenza delle tendenze dissociative, l’incapacità di mediare, l’accantonamento dei suggerimenti solidali del nostro patrimonio filogenetico stanno vistosamente compromettendo la tenuta dello stesso sistema sociale.
Lo provano più evidenze: il collasso di quei gesti minimi di riguardo che, neppure tanti anni or sono, si inscrivevano nello spazio delle buone maniere come, ad esempio, cedere il posto a sedere alle persone anziane o prestare soccorso a chi si sente male in strada; la latitanza di adulti “veri” e responsabili, capaci di insegnare norme, modelli comportamentali, valori culturali, ancoraggi etici versati alla condivisione e all’onesta intellettuale; lo ribadiscono gli ambienti familiari convulsi che alimentano nuove povertà sul piano della qualità relazionali, dei vincoli impegnativi, del coinvolgimento emotivo; lo attesta lo spazio della vecchiaia segnata da relazioni superficiali e rapporti sempre più trascurati e spicciativi anche sul versante della cura parentale. Insomma, stiamo vivendo un tempo in cui paradossalmente si viene diseducati al rispetto della vita.
È anche solo per queste espressioni socialmente ed eticamente destrutturanti che andrebbe sollecitata particolare attenzione alla struttura antropologica ineliminabile dell’esperienza del vivere: l’alfabeto della cura. Riconoscersi in tale dimensione significa, infatti, co-esistere; superare le dimensioni dell’estraneità; targare la quotidianità di gesti, parole, interazioni feconde; aprirsi alla disponibilità, all’ascolto, alla premura, alla protezione. Praticare l’alfabeto della cura significa, insomma, promuovere quel grappolo di comportamenti che favoriscono la strada del dialogo, della dialettica costruttiva, della comprensione reciproca, delle prassi “buone” che allevano la vita.
Quanto fin qui brevemente esposto, segnala, dunque, che la parola “cura” domanda una presenza e segnala un’assenza: la costruzione di un progetto di società capace di correggere le cause che producono estraneità, indifferenza, infelicità, solitudine. Data la cornice impersonale e deresponsabilizzante in cui viviamo, ritenere possibile un tale cambio di passo può apparire a molti (ai più) una proposta insensata, una battaglia persa in partenza. Tuttavia, pur se all’apparenza irragionevoli, certe battaglie vanno comunque e in ogni caso combattute, perché danno voce alla speranza, alla fiducia, al futuro, alla ricerca del senso profondo del vivere, ovvero a quelle declinazioni esistenziali di cui siamo, al momento, drammaticamente orfani. 

[1] Z. Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Erikson, 2007.