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FARFALLE SENZA ALI

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SPEDICATOIl caso delle ginnaste azzurre mostra come la esasperazione della competizione finisca con il ledere la dignità personale dell’atleta e deprivare lo sport del suo significato sociale e valoriale.

FIRMA EIDE «Gli uomini hanno sempre pensato di abitare il “mondo”, in realtà non sono mai usciti dalla “descrizione” che le varie epoche hanno dato del mondo. Quando nel tempo antico il mondo era descritto dal mito, quando nel medioevo era descritto dalla religione, quando nell’età moderna era descritto dalla scienza e oggi dalla tecnica in tutti questi passaggi gli uomini non hanno mai abitato il mondo ma la sua descrizione prima mitica, poi religiosa, quindi scientifica e ora tecnica. Forse l’uomo non ha mai avuto a che fare con le cose, ma sempre e solo con le idee che confezionano le cose» (U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, 1999, p. 627). Se si condivide questo assunto ne discende che oggi il mondo è descritto soprattutto dal sistema mass-mediatico che, proponendo corpi statuari e perfetti (espressione di giovinezza perpetua), amplifica e legalizza fuor di misura la materialità del fisico su altre dimensioni dell’uomo. Ovvero, poggia su quell’orientamento ideologico che – confidando nella possibilità di plasmare l’esistente a proprio piacimento – elegge il corpo a oggetto di culto e lo assimila a una macchina che si può scomporre, ricomporre, modificare per assicurare prestazioni e immagini di sé sempre più alte, migliorative, apprezzabili. Ovvero, e detto in termini più sintetici, idealizza e legalizza canoni di corporeità quasi mitici.
Un riscontro legato all’esacerbazione del nesso “corpo/macchina” è stato recentemente portato all’attenzione del pubblico da Nina Corradini, Anna Basta, Giulia Galtarossa, Ilaria Barsacchi, ex atlete di ginnastica ritmica, le quali hanno denunciato le vessazioni psicologiche e gli abusi subiti da parte di alcune istruttrici a motivo della loro difficoltà (incapacità?) di aderire al modello ideale di “corpo” che richiede questa disciplina olimpica.
Non è dato conoscere al momento gli esiti cui queste denunce condurranno, né interessano ai fini di questa nota. Qui interessa, piuttosto, sottolineare che il caso sui presunti abusi fisici e psicologici subiti da queste atlete registra un vistoso paradosso della nostra contemporaneità cui, peraltro, si presta poca attenzione: ossia la negazione del corpo quanto più lo si privilegia e definisce sulla base di un modello ideale. Lo si nega, appunto, come corpo e lo si trasforma in un oggetto inorganico, uno strumento “meccanico” da sorvegliare puntigliosamente e costantemente per offrire il massimo di sé in ossequio al dettato della filosofia recordista che rincorre il primato a tutti i costi, anche a danno della salute.
Va da sé: le pratiche sportive (tutte indistintamente e, in particolare, quelle agonistiche) esigono rigore, addestramento, disciplina, competenza, responsabilità, accuratezza nelle prestazioni, adesione a norme condivise, ma non possono o, meglio, non devono essere inquinate (in particolare quelle praticate in età adolescenziale) da prassi offensive, riprovazioni pubbliche, giudizi avvilenti e colpevolizzanti che non solo minano la dignità della persona (compromettendone l’equilibrio mentale e l’integrità fisica) ma, in sovrappiù, contribuiscono a corrompere il significato dello sport come sistema sociale e valoriale, spazio di investimento simbolico ed emozionale, percorso educativo e formativo. Insomma: la logica che riduce la pratica sportiva unicamente a competizione permanente, ricerca di performance sempre più alte, rincorsa euforica e ossessiva del primato, ne tradisce il compito e rovescia la logica che, nella tradizione occidentale, ci è stata trasmessa più di duemila anni fa dalle Olimpiadi.
farfalla massoBeninteso: è giusto e legittimo aspirare al successo personale e di gruppo (e sollecitare al successo personale e di gruppo) ma non altrettanto legittima e giusta è la sua esasperazione. La competizione è un processo sociale dinamizzante, utile a stimolare e potenziare energie, tecniche, conoscenze ma può trasformarsi in fattore di infelicità e destabilizzazione individuale se, come nella vicenda cui qui si accenna, celebra i vocaboli dell’eccesso, del controllo ossessivo e del risultato anche quando i costi legati ai traguardi da raggiungere compromettono vistosamente l’omeostasi individuale, determinano situazioni di stress, intrappolano nel caos di esperienze ingestibili, interrompono il legame fra il soggetto e il proprio ambiente, producono alienazione.
Le denunce delle ex “farfalle azzurre” della ginnastica ritmica nei confronti di alcune loro istruttrici suggeriscono che la loro esperienza formativa (almeno a quanto è dato supporre dalle cronache sulla vicenda) è stata attraversata (e inquietata) da quattro fattori di segno negativo. Innanzitutto, dalla mancanza o, comunque, dall’insufficienza di strategie utili a governare i meccanismi di regolamentazione degli eventi ansiogeni da cui lo sport non è certo esente (ovvero, l’educazione al controllo delle reazioni emotive, alla diagnosi dei traguardi e dei costi delle proprie azioni, al contenimento di eventuali situazioni di disagio). Quindi, dalla gracilità (dall’assenza?) di un valore ineliminabile nella pratica educativa: la “fiducia” tra maestro e allievo, ossia quel rapporto fecondo, quel patto tra persone che, poggiando sul principio della stima reciproca, governa scambi e condotte, aiuta a valutare la portata delle proprie azioni, a riconoscere i propri limiti, a rispettare il giudizio altrui, a praticare la responsabilità. Poi, dai precetti di quella filosofia dell’oggi che, come già accennato, presta esclusivo riguardo al corpo e nessuna cura alla dignità e all’equilibrio di chi quel corpo indossa. E, da ultimo, dalle prescrizioni di quell’orientamento all’esercizio ossessivo dell’agonismo che fa collassare il significato dello sport come metafora educativa, civile e sociale, riducendolo a bene di consumo, oggetto di mercato, spettacolo esasperato, monetizzazione dei risultati.
Questa melanconica vicenda (di cui si è discusso anche nell’incontro Farfalle, leoni e lo sport che umilia. Un agonismo sano è ancora possibile! promosso dalla Onlus “Maria Luisa Brasile” a Lanciano il 22 dicembre scorso) conferma, dunque, una volta di più che la nostra società – sempre più abitata da una umanità devitalizzata, nevrotica, moralmente ed emotivamente involuta – ha bisogno di cambiare passo e restituire cittadinanza all’etica, alla coerenza, al rispetto, alla passione, alla fiducia, ossia al linguaggio del pensiero meditante oggi vistosamente surclassato da quello calcolante e mercantile.