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L'IO E IL NOI IN TEMPI PANDEMIA

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SPEDICATOLa libertà individuale vissuta come totem incontrastabile e la necessità di ricostruire il senso del limite e della protezione sociale.

    di EIDE SPEDICATO IENGO

 

Quasi cinquant’anni fa, precisamente nel 1972, il Club di Roma[1]metteva in guardia, per la prima volta, sui rischi legati alla crescita economica non sorretta da una consapevole regia, invitando a riformulare i rapporti tra equilibrio ambientale e regolazione politica dell’economia internazionale. Da quella data, seguirono altri allerta sul tema dello sviluppo associato a quello dei suoi limiti, ma, a dispetto di vertici, negoziati e conferenze internazionali, la mitologia incontrastata e arrogante del progresso lineare e la spavalda signoria del pensiero del nord-ovest del mondo non hanno corretto la loro corsa. La festa è allegramente continuata fino a un imprecisato giorno del 2019, quando in una megalopoli dell’Oriente un virus impercettibile e insidioso ha dato il via a una epidemia e, nel sempre più rimpicciolito e privo di ostacoli mondo globalizzato, è approdato in tempi brevissimi in Occidente imponendo il confronto con l’impensabile: una pandemia, peraltro prevista dalla metà degli anni Zero di questo secolo[2]
Ormai da un anno, il virus Sars-Cov-2 (che ne è responsabile) transita disinvoltamente e pericolosamente fra noi, decimando i più deboli, traumatizzando il sistema economico e produttivo, producendo profondi strappi nelle realtà soggettiva e intersoggettiva, destabilizzando vistosamente soprattutto l’area delle relazioni. Ovviamente, non di quelle “virtuali” sorrette dalla tecnologia; in sofferenza è soprattutto lo spazio concreto e reale delle persone, quello fatto di abitudini, gesti, micro-rituali quotidiani. Il Covid-19, insomma, ci chiede (o, meglio, ci impone) sia di mettere in pausa quel reticolo interattivo di consuetudini e pratiche consolidate (i rapporti di vicinato, la sosta al bar, il passeggio, la convivialità) all’apparenza insignificante ma determinante per rispondere alle domande di socialità della nostra natura di animali da branco; sia di riprogrammarci su una diversa normalità. L’operazione naturalmente è tutt’altro che semplice; ma, che lo si voglia o no, la strada che ci viene offerta è, al momento, a una sola corsia. Pertanto, varrebbe tenere a mente che in tempi critici (come gli attuali) se non è concesso cambiare gli eventi, si può scegliere di cambiare atteggiamento di fronte agli eventi cercando, per esempio, di coglierne il senso per renderne meno duro il peso. È un palliativo si dirà, ma può indurre, come insegna la resilienza, a far fronte anche a esperienze dissestanti[3].
“Sarà tutto come prima”, “Ce la faremo”, “Andrà tutto bene”. Sono queste le frasi che da mesi si sentono pronunciare con maggiore frequenza. L’ottimismo, va da sé, è importante per alleggerire il peso di situazioni inedite e difficili come quelle che stiamo vivendo, ma è dichiaratamente insufficiente a correggere la società che abitiamo. Una società che, avendo perso la fisionomia di struttura per assumere quella di una rete, è precaria, impersonale, indecisa, versatile al dettato del relativismo assoluto e alla concezione del mondo come contenitore di soggetti e oggetti smaltibili e monouso[4]. Una società, quindi, che non riconoscendosi in storie comuni, debilita gli elementi portanti della coabitazione umana; marginalizza i concetti di normatività, uniformità, chiarezza;  dà ospitalità alle appartenenze corte, soft, a sangue freddo[5] e alle identità auto-centrate e distratte, sempre meno compatibili con prospettive di lungo periodo.
È lapalissiano che un tale timbro sociale non si presta a gestire la situazione critica che stiamo vivendo. Né possono soccorrere contesti sociali e individuali così complessi, scomposti, precari quelle realtà collettive ad alta integrazione che vanno sotto il nome di comunità, spesso invocate per indicare rotte individuali e collettive meno aleatorie. Il motivo è evidente: le esperienze di comunità come unità organiche, qualificate da linguaggi, significati, abitudini, ricordi, emozioni, esperienze comuni, obbligazioni reciproche (incluso il principio di subordinazione come fatto naturale e naturalmente accettato) oggi possono rintracciarsi solo in ambiti circoscritti quanto rari[6]. Sono un retaggio del passato.
All’opposto, e in linea con il clima culturale che le produce, le forme relazionali che oggi vengono definite “comunità” tendono anch’esse ad essere effimere e transitorie e, soprattutto, attente a non tessere tra i propri membri reti di responsabilità etiche e di impegni a lungo termine. Per dirla con Zygmunt Bauman, diversamente da quelle della tradizione che poggiavano su condotte solide e rigide e causavano seri problemi a chi le avesse trasgredite, quelle del nostro tempo sono comunità à la carte come nei ristoranti[7], ossia forme associative passeggere fluide, ingannevolmente socializzanti. Lo certificano, per esempio, le comunità-guardaroba, espressioni di quelle tipologie  relazionali che, pur aggregando e destando interessi simili in soggetti diversi, sfumano e si dissolvono appena si conclude l’occasione aggregante (come avviene per esempio al pubblico che assiste a uno spettacolo[8]). Lo ribadiscono le comunità-network che, essendo costruite sulle due attività del connettere e del disconnettere, possono essere aperte o chiuse a seconda delle esigenze dei soggetti in relazione e tradursi, come sta accadendo in questi mesi di emergenza, sia in flussi di connessioni indispensabili e insostituibili per contenere il rischio del contagio (come documentano, per esempio, le lezioni on line di scuole e università, oppure il lavoro in modalità smart, o le video chiamate che consentono di comprimere il senso di solitudine e dialogare a dispetto del lockdown), sia, per contrappunto, in arene di nullismo. Penso qui ai diari “on line” in cui si dispiegano narcisismi incontenibili e vanesi, o alla “cultura da banco” dei dilettanti che spaziano su Internet, oppure alla melanconica realtà dei cosiddetti “zombie” che, vivendo con lo smartphone in mano e scorrendo compulsivamente le varie timeline dei social network alla ricerca di ciò che spesso è un banale messaggio, si tirano fuori dal mondo reale per abbracciare la comunità-prigione dei social[9].
Insomma, questo nostro tempo, che dà spazio ad attori sociali tanto liberi nelle proprie scelte quanto slegati dalle norme sociali, è marcatamente privo di un requisito fondamentale per contrastare i passaggi impervi, i bruschi cambiamenti,  le destrutturazioni da cui la vita non esime, la coesione sociale, strumento indispensabile per educare a quella grammatica dell’esistenza che poggia sulle relazioni costruttive, sulla fiducia, sulla responsabilità, sulla parola significante, sul pensiero che riflette e progetta.
Se questo è il timbro del paesaggio sociale in cui oggi sosta il Covid-19, è verosimile pensare che gli atteggiamenti individualistici già robusti nella nostra società possano ulteriormente accentuarsi. Lo provano, del resto, i numerosi, spavaldi esempi di aggiramento delle norme relative a contrastare la diffusione del virus e lo conferma l’atteggiamento di coloro che, fedeli interpreti della logica tolemaica, non dismettono le proprie abitudini e ignorano il significato di civismo, come può desumersi da queste dichiarazioni raccolte a Napoli e a Milano sul pericolo di contagi legati alla movida[10].

Il Governo può dire quello che vuole, ma a venticinque anni non mi chiudo in casa, voglio divertirmi
Continuo a fare le stesse cose di prima come se nulla fosse
Noi ragazzi siamo meno soggetti ad essere contagiati, perciò usciamo, ci divertiamo
C’è una psicosi eccessiva, questa è solo un’influenza che adesso si chiama coronavirus
Usciamo e ci divertiamo, così aiutiamo l’economia e facciamo girare un po’ di soldi
Se si può, si esce. Vogliamo bere, divertirci.

È intuitivo che ambienti sociali così connotati -in cui la filosofia della “cura” non ha accesso e la categoria del “noi” solidale e progettuale scompare a fronte di un “io” egoista, irresponsabile, nichilista - non possono che rendere sempre più traballante l’attuale assetto civile e sociale.
Siamo in grado (saremo in grado) di invertire questa rotta che la lunga e drammatica stagione segnata dal Covid-19 ha documentato e continua, per più di un verso, a documentare? A mio parere con moltissima difficoltà e non senza un articolato piano progettuale sul versante sociale, politico, economico, educativo (che al momento non mi sembra di intravedere). Il motivo risiede nel fatto che l’oggi, avendo trasformato la libertà individuale in un totem irrefutabile e incontrastabile e aperto l’uscio alla «divinizzazione dell’individuo e dei suoi diritti a scapito di ogni autorità e gerarchia »[11], ha reso merce rarissima la pratica di “rinunciare” a qualche cosa a favore della collettività[12]. Allora forse sarebbe tempo, come suggerisce Luca Ricolfi, di dare uno sguardo al nostro passato prossimo, alla società tradizionale, quando si aveva coscienza del senso del limite e mostrarsi responsabili in nome di un dovere comune costituiva un’operazione non straordinaria. Sarebbe il caso, insomma, di riesumare alcuni gesti antichi e “ribellarsi” a questi nostri tempi bulimici, insipienti, presentisti, boriosi che paiono aver smarrito o forse mai conosciuto il significato di due concetti-cardine della tradizione occidentale: la protezione sociale e la tutela dell’uguaglianza[13]. Sarà una battaglia persa? Forse, comunque non sarà una battaglia irragionevole e infondata.

           

[1]Il Club di Roma è un’associazione non governativa, fondata nel 1968 dall’imprenditore italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King. L’interesse del Club, costituito da intellettuali provenienti da ideologie, esperienze, paesi diversi (scienziati, umanisti, industriali, economisti, studiosi provenienti dal terzo mondo, alti dirigenti pubblici internazionali, attivisti dei diritti civili, capi di Stato dei cinque continenti) verte sulla problematica mondiale, ossia sull’insieme dei problemi della contemporaneità che costituiscono una matassa di questioni interagenti. Negli anni ha pubblicato una serie di importanti rapporti sui mutamenti socio-politici e tecnico-scientifici della modernità.
[2] I. Capua, Il dopo. Il virus che ci ha costretto a cambiare mappa mentale, Mondadori, 2020, p.34.
[3] A. Oliverio Ferraris, La forza d’animo, Rizzoli, 2003.
[4] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, 2006, p.188.
[5] Il riferimento, qui, è a quelle appartenenze che, non accompagnandosi alla consapevolezza della scelta e alla responsabilità, rifuggono da qualsiasi connessione emotiva, promuovono il “fare” opportunistico e danno vita a soggetti deboli, disponibili ai giochi delle circostanze, incapaci di riconoscersi e definirsi in qualcosa.
[6] La stessa famiglia, che pure possiede una lunga tradizione di adattabilità al mondo esterno, va connotandosi sempre meno come spazio comunitario e sempre più come spazio soggettivo, segmentato, modulare, senza centro.
[7] Z. Bauman, Modernità e globalizzazione. Intervista di Giuliano Battiston, Edizioni dell’asino, Roma, 2009, pp.63-64.
[8] Per spiegare il significato delle comunità guardaroba, Bauman si serve della retorica dello spettacolo. Assistere ad uno spettacolo teatrale comporta, per esempio, “vestirsi per l’occasione”, conformarsi ad un canone di abbigliamento diverso da quello adottato quotidianamente. Questa condotta per l’intera durata dello spettacolo «fa apparire tutti gli spettatori in sala molto più simili gli uni agli altri di quanto siano nella vita di tutti i giorni […]. Prima di entrare in sala tutti lasciano il cappotto o la pelliccia presso il guardaroba del teatro […]. Durante la rappresentazione […] sono tutti perfettamente sincronizzati, quasi fossero sapientemente programmati e diretti. Una volta calato il sipario, tuttavia, gli spettatori ritirano i propri soprabiti dal guardaroba, e una volta indossatili tornano repentinamente ai rispettivi ruoli ordinari, tutti diversi tra loro, per poi dissolversi nella variegata folla che riempie le strade e dalla quale erano spuntati solo poche ore prima». Cfr. Modernità liquida, op. cit., p.236.
[9] Cfr. S. De Angelis, “Quale socializzazione nelle tecnologie mediali?”, in E. Spedicato Iengo, G. Bongo, Società artificiale. Dal consumismo alla convivialità, Franco Angeli, Milano, 2015, p.55.
[10] Cfr. il programma televisivo L’aria che tira, 9 marzo 2020.
[11] L. Ricolfi, L’estate degli errori/L’incapacità di rinunciare che ha favorito la pandemia, il Messaggero, 17 ottobre 2020.
[12] Ibidem.
[13] F. Cassano, Homo civicus, Edizioni Dedalo, 2004, p.9.

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