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E LA PAROLA SI FECE CHIACCHIERA

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SPEDICATOLe forme di relazione e di comunicazione si vanno anemizzando e dematerializzando, portando con sé un decadimento della parola a chiacchiera. E l’informazione viene scambiata per conoscenza.

 

             di EIDE SPEDICATO IENGO

 

 

Nell’aggrovigliata storia evolutiva dell’uomo lo sviluppo del linguaggio ha svolto un ruolo cardine nel passaggio tra la fase pre-umana e quella propriamente umana. È la facoltà del parlare che fa di un uomo “un uomo”. È attraverso il linguaggio che la realtà può essere rappresentata, compresa, valutata, modificata. Insomma, è sulla parola che si fonda la storia dell’uomo, si genera il pensiero, si attua la vita sociale. Si pensi solo alla circostanza che una parola può deludere o promuovere, affannare o consolare, avvilire o celebrare, annientare o edificare, abbracciare o allontanare, orientare o smarrire, lodare o censurare. La parola, dunque, può attivare processi positivi o negativi, salutari o venefici, costruttivi o distruttivi. Di qui la cura che dovrebbe esserle riservata.
Oggi, tuttavia, ci si muove in tutt’altra direzione, e la parola abita in spazi sociali vistosamente noncuranti della funzione che riveste, vuoi perché le sintesi e i decaloghi utili ad orientare l’agire dell’uomo si sono rarefatti a seguito di modelli di socialità sempre più erratici e diversificati; vuoi perché la fisicità e la sostanzialità dei contatti quotidiani si sono sempre più stemperati a favore di una passività de-materializzata ed artificiale; vuoi perché le forme di comunicazione primaria, basate su una piana comprensione intersoggettiva (propria di un interattivo e informato mondo vitale comune) si sono anemizzate.
Come comunica, dunque, l’individuo post-moderno? Sa interpretare correttamente i segnali dei propri interlocutori? Ha raffinato la propria capacità di comunicare e di entrare in relazione con i propri simili? A quanto è dato rilevare, la risposta sembra decisamente oscillare più verso il polo negativo che verso quello positivo. Il che, peraltro, ha una sua ragion d’essere (quantunque non giustificativa). In assenza di coerenze normative e in presenza di realtà sociali sempre più disordinate, trascurate, abborracciate, autoreferenziali non possono che affermarsi tipologie relazionali e comunicative dello stesso segno. Accertano quanto appena detto, per esempio, l’esaltazione del cicaleccio, del brusio permanente, della chiacchiera; le mediocri sceneggiature attraverso le quali si racconta o si fabbrica la realtà; la pauperizzazione teorica della cultura colta; la vedettizzazione della politica; il disimpegno nei confronti dell’istruzione e dello studio[1]. Ovvero, e detto in altro modo, in questi nostri tempi bui si è imposto il primato di un modello comunicativo senza stile che (salvo rare eccezioni) espunge da sé la qualità e si limita meccanicamente e sciattamente a travasare informazioni, notizie, opinioni, valutazioni.
Se fosse diversamente, non avrebbero spazio le dichiarazioni politiche ridotte a messaggi di stampo pubblicitario; né godrebbero di successo quei numerosi talk show in cui tutti vociano (o, meglio, schiamazzano) e l’esibizione, la fatuità, la volgarità, il vaniloquio, il pettegolezzo, l’effimero la fanno da padroni; né si sarebbe imposta la cosiddetta “lingua di plastica”, ovvero quel modo di scrivere e di parlare artificiale, prono al lessico globalizzato (dell’anglo-americano, innanzitutto) che, impoverito, omologato, disossato, è sempre meno adeguato a leggere e interpretare correttamente l’incertezza del nostro tempo dissonante e confuso; né si moltiplicherebbero quei dibattiti finti, vuoti, dominati da battibecchi, borborigmi mentali, soliloqui, ipocrite indignazioni obbedienti al mondo dello spettacolo che producono soltanto effetti ricreativi, senza cambiare nulla[2].
A giudicare da quanto accade sembra dunque, per un verso, che l’atto del parlare non si appoggi più alla concentrazione, ai vincoli logici, alle sequenze ragionate, alle risorse cognitive, e, per un altro verso, che  la parola – un simbolo che si risolve in quel che trasmette, identifica, definisce[3], fa capire – si sia ridotta a sdoganare esibizionismi, ovvietà, narcisismi, vacuità, insipienze, fiumi di parole senza peso: insomma, soffi d’aria (per dirla con Gianfranco Ravasi)[4].
Come contrastare questi scenari rumorosi, involuti, gregari, perennemente on-line in cui domina l’impero del cicaleccio, del brusio permanente, della super-esposizione dell’io? A mio avviso in un modo solo: praticandone di opposti. Ossia promuovendo la conoscenza, la riflessione, la precisione, l’accuratezza, l’autocontrollo, lo stile e, non in subordine, anche il silenzio. In una parola: frequentando l’area degli ingredienti inevitabili a dare consistenza e sostanza a ciò che si pensa, si dice, si fa.

 [1] La cura della parola stenta a trovare accoglienza anche nelle aule scolastiche. Se fosse diversamente non si confonderebbe l’informazione con la conoscenza, e a scuola non si promuoverebbe la palude del minimo indispensabile. Cfr. sul tema l’intelligente e ricco pamphlet di Paola Mastrocola, La passione ribelle, Laterza, 2017.
[2] F. Cassano, Modernizzare stanca, il Mulino, 2001, p.51.
[3] Per inciso, attraverso le parole il soggetto disegna e comunica anche una immagine di sé: pur se inconsapevolmente, si racconta, esprime il proprio modo di percepire, valutare, leggere, sentire la realtà. Cfr. per esempio, S. Petrosino, Parlare è creare mondi in Luoghi dell’Infinito, XXIII, n.243, ottobre 2019.
[4] G. Ravasi, Le parole e i giorni, Mondadori, 2008, p.260.

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