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SOCIALITÀ DISTURBATA

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IO E NOINel nostro Paese difettano l’arte di vivere ordinatamente e il sentirsi parte di una stessa civitas. La mentalità familiale ostacolo al formarsi di un Noi, come viaggiatori stranieri illustri notano da secoli.

    di EIDE SPEDICATO IENGO

È difficile negare che questo nostro Paese diseguale, discontinuo, riottoso all’uso del pronome “noi”, dà ospitalità (non da oggi) allo scetticismo per le forme di azione collettiva, al disimpegno dalla cosa pubblica, all’aggiramento delle responsabilità, insomma a quelle prassi di disorganicità sociale che inducono a chiedersi quali siano le cause alla base di queste modalità espressive ereditate dal passato e tuttora non corrette dal presente. Una risposta convincente a questi interrogativi ci viene da uno stimolante, provocatorio volume di Antonio Gambino Inventario italiano. Costumi e mentalità di un paese materno, che in questi giorni di indotta clausura ho riletto d’un fiato, riscoprendolo di singolare utilità per interpretare il presente, quantunque non sia fresco di stampa (è del 1998). Ruota, infatti, intorno ad alcuni comportamenti o, più opportunamente, ad alcuni nostri difetti che, non a sproposito, possono interpretarsi come costanti culturali, ossia come modi collettivi e stagnanti di pensare, sentire, agire.
Il rifiuto della società e dello Stato, ad esempio, oppure la litigiosità, l’incostanza di comportamenti e di reazioni collettive, la propensione alla furberia, l’opportunismo, il trasformismo, la diffidenza, il potere come appannaggio privato da usare discrezionalmente, la tendenza a sottrarsi alle sanzioni (invocando eccezioni alle regole), il nominalismo di ogni apparente impegno sociale, l’incapacità dello Stato di esprimere una burocrazia capace di occuparsi degli interessi della comunità invece di incepparli malignamente. Già questo breve e incompleto elenco di prassi patologiche segnala inappellabilmente la presenza di una grave disfunzione sul versante sociale: la scarsa socialità o, se si preferisce, il senso disturbato della socialità nel nostro Paese che, a dispetto della sua cultura e della sua vitalità, si presenta «scarsamente o per nulla sociale […] o se si prende questo termine nel suo valore originario, come un Paese “incivile”, i cui cittadini mancano dell’arte di vivere ordinatamente, come uomini accanto ad altri uomini, all’interno di una stessa civitas »[1].
Su questa modalità difettiva esiste una densa documentazione anche a firma dei tanti viaggiatori-letterati stranieri che, nel corso del tempo giunti nel nostro Paese per i motivi più diversi, si sono trasformati «in attenti e meticolosi osservatori dei nostri costumi, dei nostri modi di vivere e di ragionare»[2], lasciandoci un patrimonio di descrizioni e di giudizi «tanto più prezioso quanto più appare muoversi, al di là delle differenze degli interessi e dei temperamenti, secondo linee sostanzialmente concordanti»[3]
A proposito dell’inclinazione alla litigiosità Goethe, ad esempio, ebbe ad annotare: «È incredibile come nessuno vada d’accordo con l’altro; le rivalità provinciali e cittadine sono accesissime, come pure la reciproca intolleranza; i ceti sociali non fanno che litigare, e tutto ciò con una passionalità così acuta e così immediata che si può dire che, da mane a sera, recitano la commedia e fanno mostra di sé»[4]. La tendenza a trasformare una differenza di opinioni (in specie quelle politiche) in uno scontro personale fu rilevata diversi decenni dopo anche da Stendhal che, peraltro, sostò a lungo nel nostro paese. Questi fu colpito soprattutto dal fatto che la politica costituiva occasione per indignarsi ma non per affrontare i problemi, quelli veri e concreti, che avrebbero richiesto azioni e non parole. Gli italiani «gridano continuamente contro la tirannia, ma quando si tratta di afferrarla e rovesciarla, sono sopraffatti da un rispetto superstizioso». Quanto poi alla libertà, lontani dallo studiarne i meccanismi, «si immaginano che un Angelo gliela porterà un bel giorno»[5]. Opinioni dello stesso timbro verranno rilevate anche da altri osservatori negli anni a seguire. Non si discostò dai giudizi di coloro che lo avevano preceduto, per esempio, Hyppolite Taine in una Firenze diventata da poco capitale del Regno. Questo il brano in questione: «La sera e i pomeriggi, nei caffè e sulle piazze, tutti i piccoli borghesi, bottegai, impiegati, leggono i giornali e discutono i programmi dei ministeri. Ragionare di politica è un piacere per sé stessi; i discorsi offrono uno sfogo al loro temperamento oratorio; la conversazione politica costituisce una sorta di opera seria i cui risultati pratici sono evanescenti, perché è completa in sé stessa, ed è autosufficiente. Non approfondiscono»[6].
Il rapporto superficiale e ambivalente con la politica (della quale come appena detto ci si limita solo a discuterne con veemenza) si traduce nel disprezzo della legge, da cui la pratica dell’arbitrio e la convinzione che il favoritismo sia la strada maestra per risolvere i problemi personali. La “professione” evidentemente redditizia degli scrivani di petizioni colpì Taine nel suo soggiorno romano. «Ciascuno ha il suo protettore –annotò-  impossibile vivere diversamente: ce ne vuole uno per ottenere la più piccola cosa, per farsi rendere giustizia, riscuotere ciò che ci spetta, conservare i propri beni»[7]. Inequivocabili le assonanze con i giorni nostri in cui continuano a godere di robusta vitalità le normative asimmetriche, le clientele, gli “amici”, i rapporti notabile/gregario, le cricche corporative, partitiche, sindacali.
Quanto detto orienta, seppur sommariamente, a porsi una domanda: qual è il fattore o quali sono i fattori ai quali attribuire l’incapacità di riconoscersi, allora come oggi, in quel Noi collettivo che consentirebbe di dare risposte univoche e produttive ai non pochi problemi in cui si dibatte il nostro Paese? Cosa origina la presenza stabile di questa socialità difettosa che intrappola nelle acque limacciose dell’inazione e del disordine sociale?
Il fattore responsabile di questa malattia non estemporanea del senso sociale sarebbe da attribuire, secondo Antonio Gambino, alla presenza di una precisa mentalità[8], quella “familiale” a timbro materno che, con il suo avviluppare, proteggere, scagionare, giustificare, educa alle prassi securizzanti, alle relazioni affiliative, alle guide culturali difensive, ai comportamenti nutritivi e protettivi, ovvero all’esatto contrario dell’idea che «una società per svilupparsi in modo ordinato e proficuo ha invece bisogno di legami elettivi, basati sull’applicazione imparziale di principi generali»[9].  Inutile segnalare che questa particolare mentalità ostacola la socialità a base individuale, la solidarietà, il capitale civico, la tutela delle “idee comuni de’ comuni interessi” che, mettendo capo a “leggi generali e note”[10] come asseriva Pietro Verri, consentono un impianto sociale fondato sulle qualità personali, sull’onestà, sul merito, sulle responsabilità individuali, sull’eguaglianza delle opportunità, sui vincoli di fiducia reciproca e diffusa in contrapposizione ai meccanismi ascrittivi, alle consorterie, alle fazioni, alle sètte faccendiere, al perdonismo di marca confessionale e, non da ultimo, anche a certo giustificazionismo culturale che induce a comprendere e, spesso, addirittura ad ammirare il potere, comunque conquistato pure se con mezzi deprecabili[11]. Insomma, la mentalità familiale non svezza gli individui dalle relazioni paternalistico- affiliative, né orienta in direzione di rapporti paritetici e contrattuali, né sollecita l’autodeterminazione: al contrario -mi preme ripeterlo- fortifica le incrostazioni clientelari, le connivenze, le cordate, le massonerie, i legami patronali, le reti di amicizie strumentali, il particolarismo e l’individualismo del sistema sociale complessivo.
A corroborare l’intelaiatura di questa versione della mentalità nel nostro Paese interviene anche un ulteriore grave fattore: la gracilità del sentimento di identità nazionale. Quantunque siano trascorsi quasi centosessant’anni dalla proclamazione del Regno d’Italia e più di settanta dalla Carta costituzionale della Repubblica è ancora troppo debole il senso di appartenenza alla nazione. La circostanza risiede nel fatto, ovviamente a mio parere, che decreti e atti formali se possono trasformare un paese in uno Stato e in una specifica forma di governo (ossia in un’entità politica e giuridica cui corrisponde un territorio con confini ben delimitati) non altrettanto possono trasformarlo in una nazione, ovvero in un insieme di genti legate fra loro dalla coscienza della propria origine. Il che non è avvenuto. Il motivo, per dirla con Ernesto Galli della Loggia, è da imputarsi soprattutto «alla storica debolezza dello Stato, alla scarsa efficienza delle sue strutture amministrative, all’aspetto disordinato e disorganizzato che la sua immagine (e spessissimo, ahimè, la sua realtà anche) sempre si porta dietro, all’assenza diffusa di cultura e valori -dallo Stato stesso promossi e alimentati- che assegnino all’interesse generale, alla legge e al servizio pubblico, un ruolo anche simbolicamente eminente, infine all’assenza o all’esiguità di élite amministrative statali dotate di autorevolezza e prestigio»[12].
Pure a motivo di questi fattori la mentalità familiale ha avuto campo libero per stabilizzarsi. E infatti continua sfacciatamente a prosperare, anche a dispetto dei passaggi del tempo, dei grandi snodi della vita collettiva e della non casuale circostanza che viviamo in un mondo globalizzato. Riusciremo a uscire dal bozzolo di questa dittatura della vita inconscia, da questa mentalità che somiglia a una  prigione di lunga durata[13]? Forse: ma per rompere con questo schema di vita è necessaria una volontà collettiva di cambiamento (in specie sul versante etico e culturale) che al momento non sembra profilarsi all’orizzonte. 

[1] A. Gambino, Inventario italiano. Costumi e mentalità di un paese materno, Einaudi, 1998, p.VI.
[2] Idem, p.3.
[3] Ibidem.
[4] J.W. Goethe, Viaggio in Italia, Mondadori 1983, p.133.
[5] Stendhal, Rome, Naples et Florence en 1817, suivi de L’Italie en 1818 in Gambino, p. 7.
[6] H. Taine, Voyage en Italie. Tome II. Florence et Venise, Libraire Hachette, Paris, 1905, pp.428-429.
[7] A. Gambino, p.15.
[8] Con mentalità si intende quella a struttura psichica collettiva che (collocata al di sotto del livello della coscienza) rileva la sua presenza in modo indiretto, nella ripetizione di scelte spontanee, automatismi, espressività comuni, comportamenti irriflessi che sfuggono ai soggetti individuali della storia e tendono a replicarsi nel tempo. La mentalità: una storia ambigua, in J. Le Goff, P. Nora (a cura di), Fare storia, Einaudi, 1974, p.246.
[9] A. Gambino, p.63.
 [10]La citazione di Pietro Verri è in U. Cerroni, Il pensiero politico italiano, Roma, Newton, 1995, p.59.
[11] A. Gambino, p.24.
[12] E. Galli della Loggia. L’identità italiana, il Mulino, 1998, pp.160-161.
[13] A. Gambino, p.179.

[Nel corso del testo il dipinto  Aften på Karl Johan (Sera in Karl Johan, 1891), di Edvard Munch]

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