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L'INCERTA SICUREZZA

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SPEDICATOIn questo indicatore del nostro grado di civiltà confluiscono diversi aspetti del vivere in comune: salute, lavoro, ambiente, convivenza democratica. Libertà e sicurezza non possono che camminare insieme.

                       di EIDE SPEDICATO IENGO

 

Mai come in questi mesi il presente appare malfermo e nebuloso, segnato com’è da inquietudine, ansia, precarietà. Il galleggiamento/adattamento al clima di incertezza economica, politica e sociale che, da anni segna il nostro Paese, ha subìto infatti un ulteriore, vistoso scossone (a causa della pandemia del Covid-19) e registra quotidianamente la criticità di una parola cardine della convivenza sociale: la sicurezza[1], bene primario per l’autoconservazione del singolo e della specie e indiscusso indicatore del grado di civiltà raggiunto da una società. Questa, appunto, può definirsi tale quanto più tutela i suoi cittadini, promuove il piano delle responsabilità individuali e collettive, difende il valore del patto sociale. Attenendo, infatti, alla prevenzione, al governo, al contenimento dei danni, dei rischi e delle difficoltà in cui si può incorrere, la sicurezza definisce il passaggio da una situazione sociale erratica, irregolare, egoistica a una normata, segnata da regole, prassi, garanzie, principi condivisi.
Com’è intuitivo, in quanto espressione umana e mondana, il significato di questo bisogno può essere percepito e declinato in modo non univoco a seconda delle convinzioni personali, dei contesti culturali e simbolici, degli ambienti sociali ed economici. C’è, per esempio, chi la identifica con la salute e con le strutture deputate a tutelarla e preservarla; chi con la stabilità lavorativa e chi con quella familiare; chi con la ricchezza, il successo, la visibilità sociale; chi con l’opportunità di realizzare le proprie inclinazioni; chi con la qualità ambientale e chi, invece, con la sorveglianza degli spazi quotidiani  (si pensi ai complessi residenziali a prova di intrusione e ad accesso riservato simili a capsule fortificate); chi con un sistema penale più severo e meno indulgente e chi, all’opposto, con la coesione sociale e il rispetto delle regole. Come può constatarsi nella valutazione della sicurezza confluiscono esigenze di portata strutturale e organizzativa, stili di vita e forme di socialità, bisogni personali e orientamenti normativi, esigenze immateriali e regolazioni sociali, da cui una mappa sfaccettata e plurale che poggia su bisogni essenziali e su capricci passeggeri (come il successo o la visibilità sociale), frutto della compagine complessa dell’oggi che mescola e confonde deliberatamente in una sorta di intrico dei contrari il superfluo e il sostanziale.
Comunque la si intenda, la sicurezza poggia, tuttavia, su un terreno scivoloso. È, infatti, empiricamente inattingibile in modo totale e assoluto: vuoi perché non è possibile che tutte le volizioni e le inclinazioni dell’individuo possano essere soddisfatte, vuoi perché gli stessi bisogni personali non restano mai fermi nella quiete dell’appagamento, vuoi perché un certo grado di precarietà e incertezza ha sempre connotato l’esistenza umana anche nelle società più stabili e ben organizzate. Questa affermazione, ovviamente, non invita alla rassegnazione, né al pessimismo, né all’inazione, né a consegnarsi ai capricci della sorte: suggerisce, al contrario, di investire sul mondo fisiologicamente imperfetto in cui viviamo ogni risorsa possibile per renderlo meno imperfetto, pur nella consapevolezza delle insufficienze, delle carenze, delle défaillance in cui si può inciampare. 
Un impegno in tal senso non sembra tuttavia figurare (e non da oggi) nell’ordine del giorno dell’agenda politica nazionale. Conferma tale supposizione, per esempio, l’area del lavoro che, pur costituendo una tessera fondativa del valore/bisogno sicurezza, sembra aver perso (o comunque fortemente opacizzato) questa sua connotazione. Sarebbe tale, infatti, se garantisse protezione, inscrivesse in percorsi di autorealizzazione professionale e personale, consentisse di progettare il proprio percorso esistenziale e gettare le basi per quello del futuro della propria famiglia. Ma così non è. Si pensi agli esiti, tutti indiscutibilmente negativi, legati all’area del lavoro sottopagato e saltuario; a quello privo di assicurazioni sociali; a quello “al nero” dell’economia sommersa che fa da valvola di sfogo all’economia ufficiale; a quello marginale che esclude dalla cittadinanza sociale; a quello flessibile che spesso si trasforma in rischio di precarietà lavorativa e in maggiore indebolimento del potere contrattuale. Ma si rifletta anche sulle modalità di accesso al lavoro snaturate nel loro significato (penso qui, esempio, al tirocinio che, diversamente dal rappresentare un periodo di formazione al lavoro, si traduce non di rado in prestazioni lavorative gratuite); o alle forme di “lavoro in deroga” che, a fronte di scarse remunerazioni, spremono in vista del raggiungimento di una meta definita, o alle tante attività sottopagate della cosiddetta economia dei lavoretti. In questo caso, il pensiero va non solo ai fattorini del cibo in bicicletta che pedalano molto e guadagnano poco, ma anche ai tanti giovani laureati che, in ambienti professionali blasonati, lavorano molto in cambio di remunerazioni indecorose. Nell’ambito del lavoro le maggiori criticità si rilevano nella condizione giovanile, la prima generazione nativa precaria, frutto della società “saturnina” (come correttamente ha precisato, peraltro già da anni, Franco Ferrarotti), ossia di una società che non progetta il futuro di chi mette al mondo. A ciò si aggiunga che i processi di ibridazione sempre più spinta tra l’uomo e la macchina e la progressiva sostituzione dei lavoratori con l’automazione hanno ulteriormente ampliato l’area di scenari lavorativi segnati da insicurezza e precariato permanente.
Quanto appena detto segnala che il progresso, da promessa di felicità universalmente condivisa e durevole, si è spostato verso il polo opposto delle aspettative, dando luogo a crisi e tensioni costanti «in una sorta di gioco delle sedie –per dirla con Bauman- in cui un attimo di disattenzione si trasforma in sconfitta senza appello e nell’esclusione definitiva. Anziché grandi speranze e sogni d’oro, il ‘progresso’ evoca ormai notti insonni, popolate dagli incubi di ‘restare indietro’, di perdere il treno o di essere catapultati fuori del finestrino di un veicolo che accelera sempre più»[2]. Prova questa considerazione, per esempio, quel diffuso modus agendi aziendale che, in ossequio al principio del “sempre diverso” e del “sempre più in fretta”, non esita a chiudere spazi perfettamente produttivi (lasciando allo sbando dipendenti di buon livello) semplicemente «perché l’azienda madre deve dimostrare al mercato di essere capace di trasformarsi»[3].
Insomma, da decenni, la nostra società sopporta vistose, pesanti situazioni critiche sul versante “sicurezza” che si devono, per esempio, all’intreccio fra la nuova economia e la finanza globali, al cinismo e al pressappochismo politici, all’elefantiasi burocratica, alle disattenzioni istituzionali (si pensi al rimpallo di responsabilità nella soluzione di problemi anche spiccioli), agli sprechi, alla corruzione, all’illegalità, al sistema penale spesso irragionevolmente garantista. Di qui le mancate risposte, per esempio, alla debilitazione del tessuto delle solidarietà familiari giunto ai limiti della tenuta; all’aumento dei fabbisogni sociali (basti pensare all’invecchiamento della popolazione); ai vivai di rancore e di incomunicabilità normativa e culturale (come segnalano, per esempio, gli effetti  del multiculturalismo non governato)[4]; alle espressioni patologiche di deriva individualistica. E ancora: confermano lo stato di crisi di questo bisogno/valore le espressioni di invivibilità urbana e metropolitana, l’indebolimento sempre più vistoso del senso civico, i processi di degradazione antropologica soprattutto in certe aree e contesti del Paese. Il pensiero qui va a certi quartieri (autentiche “bombe sociali”) in cui vivono stipate decine di migliaia di italiani e oggi anche di immigrati, e in cui la criminalità (nella versione hard e soft) ha ampiamente modi dispiegarsi e di fertilizzarsi anche a seguito della immigrazione clandestina. Per inciso: andrebbe tenuto a mente che le cause del malessere civile e sociale di molte periferie italiane non sono «l’effetto casuale di un tragico destino» ma il prodotto della progressiva disattenzione e incapacità di programmazione delle istituzioni e di uno Stato che, non da oggi (come a ragione asserisce Goffredo Buccini) «ha cessato di esistere o, meglio, di rappresentare qualcosa di credibile agli occhi delle persone»[5].
Queste evidenti criticità politiche e sociali, superfluo il segnalarlo, danno ospitalità al disordine, alla provvisorietà, alla frustrazione, all’assenza di garanzie e, non in subordine, anche a malintese interpretazioni del concetto di libertà. A proposito della libertà corre l’obbligo di precisare che, diversamente dalla vulgata generale che la interpreta in veste di passaporto per fare ciò che si vuole, esseri liberi significa, all’opposto, agire con consapevolezza, responsabilità, coerenza. Una libertà senza limiti, doveri, obbligazioni e la rivendicazione di diritti senza misura producono invariabilmente abusi, spazi frammentati, rissosi, irresponsabili, privi di proiezioni ideali. Sebbene sia difficile raggiungere un equilibrio del tutto soddisfacente fra libertà e sicurezza è, tuttavia, inconcepibile una vita dignitosa e stabile senza coordinare queste due linee di azione. Se, infatti, la mancanza di libertà rende la sicurezza simile a un carcere, nello stesso modo la mancanza di sicurezza rende impossibile esercitare la libertà a meno che non si indossino i panni di avventurieri rapaci e temerari, disponibili ad affrontare i rischi di un futuro ignoto quanto incerto[6]. Ovvero, e detto in modo più esplicito, un Paese non può sopravvivere senza sicurezza, perché si dissolverebbe nell’anarchia e nella violenza consentendo alla legge del più forte di trionfare[7].
Dunque, eludere e/o deludere il bisogno di sicurezza può tradursi in lievito per derive autoritarie. Per ovviare a questo rischio occorrono (occorrerebbero) cambi di passo sul versante politico, economico, istituzionale, individuale. Sarebbe da pretendere, per esempio, dal sistema politico l’impegno concreto (e non solo dichiarato) ad investire risorse (soprattutto morali) in progetti di riorganizzazione civile, sociale ed economica dismettendo il costume di ridurre la politica agli affari privati di consorterie improvvisate, autoreferenziali, sleali, rissose, in permanente competizione; dal sistema economico e da quello finanziario di abbandonare l’idea dello sviluppo professato dall’attuale corrotto turbo capitalismo; dagli imprenditori di accentuare il ruolo di cittadini che non perseguono esclusivamente il profitto ma anche funzioni di interesse sociale e civile (penso qui alla filosofia del lavoro di Adriano Olivetti); dalle istituzioni di fare la loro parte e di non delegare sempre ad un generico “altri” quello che potrebbero fare loro; dai singoli di praticare il senso civico, l’autodisciplina, la formazione (l’ignoranza produce la paralisi della volontà).
Voglio dire che la sicurezza è un diritto sociale (ahimè) “fragile” alla cui tutela sono chiamati tutti, nessuno escluso. Diversamente si continuerà a dare ossigeno a questi nostri tempi presentisti, irresponsabili, senza passione che camminano sul filo del rasoio senza avvedersi (o fingendo di non vedere) che lo strapiombo è dietro l’angolo.

[1] Non per caso, nella piramide dei bisogni elaborata dallo psicologo Abraham Harold Maslow e strutturata in cinque fasce successive (da quelli primari ed essenziali per la sopravvivenza e l’autoconservazione a quelli più maturi ed evoluti) il bisogno di sicurezza segue quelli fisiologici, precedendo sia quelli sociali e di appartenenza, sia quelli di stima e riconoscimento sociale, sia quelli di autorealizzazione.
[2] Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, 2008, p.69. 
[3] R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, 1999, p.50.
[4] G. Buccini, Ghetti, L’Italia degli invisibili: la trincea della nuova guerra civile, Solferino, 2019.
[5] Idem, p. 270.
[6] Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, 2008, p, 29.
[7] C. Nordio, La stagione dell’indulgenza e i suoi frutti avvelenati. Il cittadino tra sfiducia e paura, Guerini, 2019, p,27.

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