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DISSOLVENZE SOCIALI

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eideNella società-network si allentano i legami e il cittadino si trasforma in consumatore. L'etica della comunità e il piacere del'incontro e del pensare insieme.        
   
            di  
EIDE SPEDICATO IENGO

   Mi corre l’obbligo di precisare che questa nota ruota, inevitabilmente, intorno ad alcune insistenze tematiche per non tradire il titolo della rubrica, Mondo liquido. Un titolo impegnativo quanto suggestivo che vuole richiamare l’attenzione sulla difficoltà di comprendere il senso delle cose in scenari sociali segnati dalla revocabilità permanente di preferenze e legami e, perciò, sempre più sbriciolati in espressioni contraddittorie, incerte, sghembe, incapaci di promuovere convergenze pertinenti e direzioni di prassi responsabili, coerenti, attendibili. 
   Non per caso, e per dirla con le parole del teorico della modernità liquida, Zygmunt Bauman, la “virtù” più familiare e praticata nella contemporaneità dall’ingombrante nord-ovest del mondo non è la conformità alle norme, ma la flessibilità: ovvero, la disinvoltura a cogliere le opportunità del momento e a mettere da parte impegni e legami senza rammarichi o ripensamenti. E, infatti, questi e quelli -che richiedono investimento di tempo e di energie per il conseguimento di un obiettivo comune e a cui, non di rado, si antepongono gli interessi individuali immediati- dispongono di regie sempre più rare e di copioni, attori, pubblico sempre più radi. Voglio dire che questo tempo della modernità ha attivato un processo di trasformazione radicale della realtà sociale (nonché il modo di viverla) e fatto perdere alla società la sua fisionomia di struttura per assumere quella di una rete. Ovviamente non vanno spese molte parole per segnalare che una società che si trasforma in una rete, in un network che poggia sulle due attività del connettere e del disconnettere, non può che inneggiare al presente velocizzato; irrobustire la dimensione di legami sempre più fragili e fittizi; moltiplicare le appartenenze individuali intermittenti, corte, soft, distanti dai suggerimenti normativi; vezzeggiare il profilo del consumatore che, non avendo interesse a sviluppare alcuna etica della comunità, legge il mondo come un contenitore pieno di oggetti smaltibili e monouso.
   Sia chiaro: qualunque società è un’unità molteplice, plurale, dinamica, e qualunque società è dotata di una organizzazione implicita che le consente di ristabilire l’equilibrio nelle parti in cui questo viene a mancare. Tuttavia, il quadro si complica (e non poco) quando le condizioni della vita cambiano in modo turbolento e con ritmo accelerato come sta avvenendo nell’attuale processo di modernizzazione; quando si minimizza la funzione dei fattori stabili di orientamento; quando mancano progetti coordinati e prospettive di ampio respiro; quando il centro della scena sociale è occupato dal relativismo assoluto e dall’individualismo libertario; quando non si colgono indizi pensati per correggere lo squilibrio tra l’esplosione dei diritti e l’elusione dei doveri.
   Va da sé che questo nuovo assetto sociale, dando sempre maggiore spazio a progetti di socializzazione flessibili, rivisitabili, annullabili, mette inevitabilmente e sciaguratamente in crisi le idee di condivisione, cumulatività, prevedibilità, certezza: di qui l’affermarsi di una topografia sociale devitalizzata, vulnerabile, privatisticamente ripiegata su sé stessa e, in molte sue parti, già collassata; di qui lo svuotamento dei processi e dei patti di socializzazione istituzionale; di qui il moltiplicarsi dei profili dell’uomo dislocato, incapace di dare alle cose un senso stabile, perché continuamente esposto alle sollecitazioni e alle turbolenze del mutamento. 
   E non potrebbe essere diversamente. Confrontarsi in tempi sempre più stretti con sistemi di relazione, linguaggi, forme di comportamento via via sostituiti da altri non può che confondere, produrre insipienza, compromettere dalle fondamenta la struttura e la legittimazione della stessa convivenza sociale. Questa, infatti, è profondamente mutata nei timbri e nelle prassi a fronte di un passato anche recente. Non per caso abitiamo ambienti sociali sempre più impersonali, sdrucciolevoli, frettolosi, affetti da analfabetismo etico-culturale e cosmopolitismo utilitarista e, perciò, disinteressati per un verso a ricostruire i luoghi di rappresentanza dei bisogni dei cittadini e, per un altro verso, a contrastare sia le scelte di una classe dirigente senza slancio morale, sia un sistema politico rapacemente occupato a ridurre la politica agli affari privati di una casta. Ambienti, dunque, inabili a ridare centralità a quel grappolo di concetti -quali giustizia, regole, educazione, fiducia, etica, responsabilità, onestà intellettuale - che costituiscono la trama di qualsiasi tessuto collettivo voglia definirsi civile e democratico. 
  Naturalmente, tale assetto socio-culturale non esclude anche l’esprimersi di tipologie sociali auto-riflessive, autoregolate, inclini a praticare espressioni di socialità positiva (come attitudine del quotidiano). Tuttavia, il centro della scena non è occupato da questa categoria di attori sociali. Se così fosse non sarebbe robustamente evidente il peso della crisi etica e cognitiva della fase storica che stiamo vivendo; non faremmo quotidianamente esperienza di arene sociali incoerenti, inaffidabili, sempre più de-istituzionalizzate; non assisteremmo a discussioni pubbliche fatte a colpi di tweet; non sperimenteremmo la contrazione dell’impegno civico o la gracilità di contrasto al dettato omologante dell’oggi che allarga sempre più le file dei suoi devoti. 
   A questo punto del discorso (e per non incorrere in fraintendimenti) ritengo opportuno chiarire che il mio indugio sulle molte zone d’ombra e sulla deriva dell’attuale contesto socio-culturale non vuole rispolverare il dettato di ideologie restauratrici incapaci di misurarsi con l’imprevedibilità della storia, ma solo precisare che se è pericoloso e improprio intendere la società in veste di un monolito di norme rigide e vincolanti, altrettanto improprio e pericoloso è ritenerla una sorta di piazza senza perimetri attraversata da disinvolti, cangianti mercati di significato. 
   Voglio dire che, dati i flussi d’interazione e i salti dialettici dell’oggi, forse sarebbe tempo di invertire la rotta e iniziare a modulare atteggiamenti e prassi individuali e collettive sul piano di una costante autocritica. Ossia, e detto altrimenti, per provare a capire cosa sta succedendo, cosa potrà succedere (nonché per temperare gli effetti delle azioni che non reggono più le sfide che il mondo liquido ha paradossalmente rivolto contro se stesso), bisognerebbe forse riscoprire il piacere di incontrarsi alla pari e di creare spazi per pensare insieme. Due modalità, queste, poco praticate nell’attuale momento storico, ma a parer mio indispensabili per ri-costruire le dimore empiriche e metafisiche che offrono significato all’esistenza.