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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

L'ANTICA COENA

CALABRESEContinua il mio girovagare, nonostante covid e guerra, tra autori e scienziati del passato per capire meglio cose attuali del presente. La coena nell'antica Roma, i pomarii e la salutare melannurca. 

FIRMA CALABRESEAverani Giuseppe - (Firenze 1663-1738) Accademico dell’Università di Pisa, autore, tra l’altro, Del vitto e delle cene degli antichi, pubblicata postuma nel 1761, in cui analizza le carni, i pesci, le salse (il garo, la muria, l’alece). Citando Varrone, Petronio, Marziale e Cicerone, spiega come si svolgeva la coena, il pasto principale nell’antica Roma. Si iniziava con gli antipasti: principia convivii, gustationem, gustum o promulsidem (perché si beveva il mulso o vin mielato). Si passava al piatto forte, la vera e propria cena (caput coena). Il tutto si concludeva con la AVERANImensa pomorum o secundae mensae. C’erano al servizio i pomarii, quelli che accomodavano la frutta, i placentarii, gli addetti al servizio di torte e sfogliate, i dulciarii oggi li chiameremmo i pasticcieri, i lactarii, che preparavano e servivano latticini. Il tutto era diretto dal tricliniarcha o architriclinus.
Sinteticamente c’era il detto ab ovo usque ad mala (dall’uovo fino alle mele). Descrive poi le leggi osservate nel bere. Tre tazze di vino sono per uomini sobri e assennati: la prima per la sanità, la seconda pel piacere, e l’ultima pel sonno. Si sofferma ancora sulla vite in cui il primo è il grappolo del piacere, il secondo dell’ebrietà e il terzo della gravezza e del fastidio (ibidem, pag. 91). Descrive l’ubriachezza e i gran bevitori. Afferma che per vinolenza (sic!) erano famosi Sciiti e Parti per cui poscia passò il proverbio i Parti quanto più beeano tanto più erano assetati (ibidem, pag. 116). Tiberius Claudius Nero fu da molti nominato Tiberius Caldus Mero (il vino) perché si dilettava di bere assai e di bere caldo (ibidem, pag. 122). Descrive, inoltre, le varie bevande degli antichi: la mulsa o idromele, la bevanda composta d’acqua e di mele (il miele); quelle derivanti  da frutta e pomi e quelle finalmente fatte d’uva, e di vino. Oggi è improponibile e imbevibile il vino murrina, un vino mescolato con mýron una parola greca che significa unguento (ibidem, pag. 143). Di vini in cui sono mescolati gli unguenti ne scrivono Ateneo, Teofrasto, Eschilo… (riporta l’Averani a pag. 143). “Il vino murrina si dava ai condannati per alleviare il dolore, molto differente dal vino mirrato. Fatto, se ben m’avviso, con legno di mirra pestato ed infranto, e tenuto entro per infusione, e forse anche con forza spremuto” (ibidem, pag. 144). Penso ad alcune tecniche di produzione di vini barricati in cui si accelera la maturazione con la pratica dell’infusione del legno e non con l’invecchiamento nelle botti di legno pregiato! Se il vino e l’acqua, nel periodo invernale erano serviti a temperatura ambiente o riscaldati, in estate, con la calura che, soprattutto a Roma, era elevata, bisognava berli freschi. “L’ultima maniera di agghiacciare l’acqua e il vino era di circondare di ghiaccio e di neve le bocce, o altri vasi pieni di questi liquori come da noi comunemente si costuma” (ibidem, pag. 169). Oggi le bottiglie sono portate a tavola in un secchio di ghiaccio, il seau à glace!      

Una mela al giorno toglie il medico di torno: la melannurca.
La pubblicazione dell’Averani ha destato in me la curiosità non tanto sul vino quanto su tutti i personaggi intenti a preparare la coena. Tra questi mi ha MELANNURCAcolpito la presenza dei pomarii (quelli della frutta) che, sicuramente portavano a tavola le melannurca. Ancora oggi, a distanza di oltre duemila anni, possiamo nutrirci di questa varietà di mela campana IGP (Indicazione Geografica Protetta) dal 2006. Nella Casa dei cervi di Ercolano, città sepolta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C., è riportato alla luce, dagli scavi, il dipinto di un vaso in vetro pieno di melannurca. Il rosso vivo di queste mele è ottenuto, dopo la raccolta, tenendole esposte tra terra e paglia per diversi giorni fino a completa maturazione. Non è una dichiarazione di guerra alle mele del trentino ma una dovuta precisazione per un frutto che ha migliaia di anni di vita e continua a nutrire il nostro organismo. È, infatti, una mela ricca di polifenoli, vitamine A, B, C e PP con diversi minerali quali potassio, calcio, magnesio, manganese, ferro, fosforo. Idonea per chi soffre di pressione arteriosa alta, essendo povera di sodio e, adatta ai diabetici, per un indice glicemico molto basso. Sarebbe opportuno, dopo averle accuratamente lavate sotto acqua corrente, mangiarle con la buccia, ove sono le fibre e i nutrienti. Protegge l’intestino e combatte il reflusso gastroesofageo, incrementa, infine il livello del colesterolo, quello buono (HDL). Le notizie non sono dettate da un non medico quale io sono bensì da un’accurata ricerca della facoltà di Farmacia dell’Università degli Studi “Federico II” di Napoli”. E allora cerchiamo, compriamo e gustiamo le melannurca. 

Etimologia

Annurca - Mi sia concesso un piccolo approfondimento. Gian Battista Della Porta (1535-1616) in una sua opera, il Pomarium del 1583 afferma: le mele che da Marco Terenzio Varrone (116-27 a. C.), Lucio Giunio Moderato Columella (primo secolo d. C.) e Ambrogio Teodosio Macrobio (quarto o quinto sec. d. C.), sono dette orbiculate, provenienti da Pozzuoli, hanno la buccia rossa da sembrare macchiate nel sangue e sono dolci di sapore. Sempre il Della Porta scrive che queste mele sono chiamate orcole; da qui i nomi di anorcola e poi annorcola. Il botanico Giuseppe Antonio Pasquale (1820-1893) nel suo Manuale di Arboricoltura, afferma che deriva dalla Lingua latina mala orcula perché prodotte nell’Orco, cioè gli Inferi, che aveva l’ingresso presso il lago Averno vicino Pozzuoli. Segue lo stesso itinerario del Della Porta in anorcola→annorcola con il definitivo sviluppo, alla fine dell’800 in →annurca.
Polifenoli - Nome composto di “poli” (dal greco polýs “molto/a”)+”fenoli” [composto di fen(ilo) e olo], su base fr. phénol (Sabatini-Coletti, Dizionario Lingua Italiana, pag. 961).
Mero, esiste nel dialetto pugliese lu meru e nell’abruzzese la voce miére [nome maschile singolare, (in Abruzzo Occidentale) “il vino”←dal lat. měrum (vinum) “(vino) puro” ( E. Giammarco, L.E.A., pag. 345).

Fonti

Averani Giuseppe, Del vitto e delle cene degli antichi, G. Daelli e comp. Editori, Milano 1863 ristampa on-line.
Candido Calabrese, Lingua e cibo-Piccolo dizionario enogastronomico abruzzese (non edito).
Ernesto Giammarco, Lessico Etimologico Abruzzese, volume V del Dizionario Abruzzese Molisano, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1985.
www.ilgiornaledelcibo.it – saggio di Elena Rizzo Nervo del 26/05/2017.
Villa Santa Maria 16 marzo 2022                                                    

 

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