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LE PAGINE DELLA RESISTENZA

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RITABARTUn itinerario tra libri di memorie, saggi storici, romanzi, poesie. Come i grandi autori ci restituiscono sulle pagine ciò che era meglio non fosse mai stato. Un’arte animata da sentimenti che vanno mantenuti vivi.

                                di RITA BARTOLUCCI

Era inevitabile che un fenomeno storico tanto complesso, di ampia portata e coinvolgimento qual è stato quello della Resistenza italiana – così particolare rispetto ad altri movimenti europei di opposizione al nazifascismo al punto d’assumere anche i caratteri di guerra civile –, legasse a sé una letteratura della resistenzaforte e poliedrica esigenza narrativa che si facesse carico di raccontare, in modalità diverse, il dramma epocale e gli umani valori da esso scaturiti, per trasmetterli alle generazioni successive. Inoltre, non va dimenticato che molti scrittori hanno vissuto da vicino, per diretta esperienza, le vicende belliche riportandone traumi non solo fisici, ma ancor più psicologici, che hanno successivamente cercato di lenire anche attraverso la narrazione di quanto avevano trascorso. La parola, scritta o orale, ha infatti un notevole potere taumaturgico nell’alleviare gli affanni; gli antichi, che con la saggezza avevano molto a che vedere, parecchio tempo prima che intervenisse la psicanalisi, ne ebbero consapevolezza e utilizzarono il dialogo in funzione conoscitiva e, quindi, liberatoria.
Non tutti quelli che sono stati partigiani hanno scelto deliberatamente di essere tali: molti lo sono diventati per puro caso, altri hanno dovuto far forza al proprio essere, che per natura li avrebbe spinti a tenersi fuori dalla violenza delle armi, facendo appello a categorici imperativi morali. Ma l’eroismo, se autentico, non è una precondizione per l’agire, non è voluto né ricercato; sempre è accidentale e, chi ci si ritrova dentro, diviene eroe insieme a tutte le sue paure e le incertezze, che lo fan grande più ancora dell’audacia e del coraggio.
Questo è stato il taglio che molti autori hanno voluto dare al volto della Resistenza: un sembiante umano, realistico, dove il bene e il male non stanno mai da una sola parte; i sentimenti nobili convivono con le fragilità emotive e la compassione è d’obbligo per capire il tutto. Un’ottica che mi vede fortemente partecipe e mi guida nella scelta di testi e autori, su cui maggiormente soffermarmi.
Sono sguardi particolari, diretti a illuminare gli eventi storici perché possano parlare con voce convincente alle future genti, nella speranza che mai più queste debbano ricorrere alla lotta clandestina per affermare i propri diritti.

Copiose e di vario genere sono state le opere letterarie ispirate alla Resistenza e alla lotta partigiana, realizzate sin dall’immediato dopoguerra. Vi rientrano libri di memorie che ripercorrono l’esperienza vissuta dai diretti partecipanti agli eventi bellici; saggi storici, opere di fantasia e una ricca produzione poetica.
Quest’ultima annovera a sé illustri nomi tra cui quello di Piero Calamandrei: strenuo antifascista, giurista di chiara fama, scrittore e uomo politico; membro dell’Assemblea Costituente, ha dato un prezioso contributo alla commissione addetta a redigere il progetto della Costituzione. Tra i tanti suoi impegni di studioso e docente, riuscì anche a ritagliarsi uno spazio letterario e immortalò il valore della Resistenza in versi di forte pathos. Questi compaiono a epigrafe di una Lapide ad ignominia, installata nel Comune di Cuneo, a risposta delle vergognose dichiarazioni rilasciate, alla volta degli Italiani, dal comandante in capo delle forze tedesche Albert Kesserling, in occasione della sua controversa scarcerazione, dopo essere stato processato e condannato a morte da un tribunale militare inglese; pena commutata poi in ergastolo e, successivamente, annullata per “gravi motivi di salute” avanzati dal criminale.
A questa, altre voci poetiche si sono aggiunte per gettare una luce speciale su vicende tanto drammatiche e dolorose. Ne citerò solo alcune, che al momento più mi tornano in mente, seguendo un ordine scisso da qualsiasi intento valutativo. La prima appartiene a Franco Fortini col suo Canto degli ultimi partigiani, costruito su parole dure e crude che ben rendono la ferocia nazista e ammoniscono perché la giustizia che verrà, dovrà avere l’impronta degli occhi dei morti e dei pugni dei morti.
Gli fa seguito la lirica più intimistica e meno aggressiva di Cesare Pavese, intitolata Tu non sai le colline, carica di mestizia e dolore per il partigiano divenuto cencio di sangue, proprio là sulle dolci colline delle Langhe, tanto care all’autore e da lui mitizzate in fecondo corpo di donna.
Forte e palpabile è la sofferenza di Pier Paolo Pasolini, allorché rievoca i giorni friulani della lotta in La Resistenza e la sua luce. In versi appassionati egli intreccia vicende di storia personale a quella collettiva, di un popolo desideroso di giustizia e libertà, di pura luce. Un sogno che l’autore non vedrà, poi, prendere forma nei modi vagheggiati. La delusione lo accompagnerà fino alla morte e renderà ancora più acuto il dolore per la perdita del fratello partigiano Guido, caduto in circostanze tragiche, nel corso di una guerra che doveva essere di liberazione.
Asciutti e toccanti, in uno stile che oltrepassa i canoni ermetici, risuonano i versi di Giuseppe Ungaretti, dedicati ai partigiani in Per i morti della Resistenza. Uomini e donne che col sacrificio di sé permisero ad altri di vivere in libertà.  
Vibrante di accese e taglienti parole è la composizione Partigia di Primo Levi. Un vero e proprio testamento, un invito alle nuove generazioni perché non mollino la guardia e siano attente ai nuovi nemici legati all’intolleranza, all’odio razziale, al rifiuto della solidarietà.
Anche Gianni Rodari, assai noto per la scrittura rivolta ai più giovani, ha avvertito l’urgenza, da uomo di forte impegno civile e politico qual è stato, di esprimere in parola poetica il grande valore della libertà. Egli affida il sacro messaggio a una madre, privata del figlio immolatosi per il bene di tutti. Il testo La madre del partigiano, misurato, delicato e commovente, cela nella freschezza dei colori – il bianco della neve, il rosso del sangue e del fiore, l’azzurro dei monti – la speranza che il sacrificio sia di ammonimento agli uomini che verranno.
Prosa e poesia saranno chiamate a dare insieme un comune e diverso canto della tragedia umana consumatasi soprattutto a danno dei già miseri. Nella incisività dei versi o nel più ampio fluire del racconto, gli autori avranno e daranno modo di riflettere su quanto accaduto e che era meglio non fosse mai stato.

VITTORINIA distanza di solo due mesi dalla Liberazione dal Nazifascismo, compare anche il primo romanzo sulla Resistenza, Uomini e no di Elio Vittorini, destinato a divenire una pietra miliare per tutti coloro che vorranno guardare a quel tragico momento storico con occhio inusuale. Il titolo dell’opera è enigmatico e non va inteso in forma semplicistica e riduttiva, perché gli uomini per Vittorini non furono soltanto quelli che combatterono per la libertà, mentre i non coloro che impersonarono la dittatura. L’accezione di uomini è, pertanto, più ampia e complessa e include tutti gli individui capaci a non comportarsi come belve.   
Enne 2 (nome di battaglia) è il protagonista del racconto che, pur comprendendo la necessità della Resistenza, non può fare a meno di interrogarsi sul senso del vivere, del combattere e del morire, come pure sulla non-umanità che è nell’uomo e fa di lui una belva, un non-uomo.

Anche Italo Calvino esordisce come scrittore negli anni 1945-46 con un romanzo, I sentieri dei nidi di ragno, che verrà pubblicato nel 1947. L’opera guarda alle drammatiche vicende appena concluse con occhi speciali, quelli di un bambino di dieci anni, Pin. Il particolare taglio, tra l’avventuroso e il fiabesco impresso alla narrazione, consentirà all’autore di prospettare una visione altra della Resistenza, sciolta da ogni retorica ideologica e celebrativa. I partigiani che Calvino propone non sono eroi, fanno parte di un’umanità disperata che si è ritrovata a vivere una lotta senza un chiaro perché, ma che comunque è uscita da quella esperienza senz’altro migliore di chi, per paura o convenienza, si è da essa astenuto.
Pin, il protagonista del romanzo, è un bambino che ha a che fare con cose più grandi di lui e che non bene comprende. Orfano di entrambi i genitori, vive tra adulti di cui non riesce a spiegarsi tanti comportamenti e che non gli forniscono buoni esempi per la crescita, ma che desidera ingraziarsi poiché è alla spasmodica ricerca di una qualche forma di paternità cui fare riferimento. Per farsi da questi apprezzare, ruba una pistola all’amante di turno della sorella prostituta, che andrà a nascondere in un luogo solo a lui noto: i sentieri dei nidi di ragno. Ѐ questo un luogo fantastico e forse reale dell’entroterra ligure, un ambiente molto caro all’autore, cui è affettivamente legato per esservi cresciuto negli anni della prima giovinezza. Ma i sentieri nel bosco sono molto di più di uno spazio fisico; assurgono a simbolo del mondo segreto in cui ogni bambino talvolta si chiude e protegge.
All’uscita dell’opera, lo stesso Cesare Pavese si espresse in toni entusiastici in una sua recensione, dove afferma: «Ѐ il più bel racconto che abbiamo sinora sull’esperienza partigiana, nessuno sarà troppo commosso».

Concludo questo rapido excursus letterario, volto a cogliere alcuni dei tanti modi di sentire, vivere e rappresentare la Resistenza, con la voce femminile di Renata Viganò; scrittrice di grande impegno civile e morale e direttamente coinvolta nella lotta partigiana, tant’è che il suo più famoso romanzo L’Agnese va a morire è di ispirazione autobiografica.
In un tempo in cui il femminismo in Italia non era ancora un movimento di massa finalizzato alla piena parità di genere, né aveva forza sufficiente per promuovere radicali trasformazioni di costume – come invece si avvierà a fare, soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso –, era tuttavia presente in aree circoscritte e rivolto soprattutto a rivendicazioni politiche e salariali. Esso nasceva però, specie tra i ceti più umili, anche in forme naturali e spontanee, come unione di forze femminili e maschili cooperanti per un fine comune. Così è accaduto che molte donne prendessero parte attiva alla lotta di Liberazione. Nel suo romanzo, ambientato nelle valli di Comacchio, Renata Viganò affida compiti importanti e rischiosi – che comporteranno la morte – a un’umile donna: Agnese. Lei, divenuta istintivamente partigiana in seguito all’arresto e uccisione del marito per mano nazista, si rende subito disponibile a far da staffetta per portare cibo, armi e notizie a quanti di nascosto combattevano per la libertà. Svolgerà questi impegni gravosi con amore e semplicità, senza darne a vedere la fatica, come sempre è stata solita fare alle prese coi più consueti lavori domestici. Queste sue qualità, un tempo così comuni alle donne del popolo, abituate dalla miseria a dover far fronte a ogni tipo di avversità e a prestare soccorso qualora ve ne fosse bisogno, ne faranno un’eroina speciale dai modi gentili e materni. Agnese è una donna che sa quel che rischia, ma ugualmente è determinata ad agire, perché vuole che la prepotenza e la sopraffazione non abbiano più modo d’essere.

Ma la Resistenza non è stata un fatto letterario; non è avvenuta per dar estro a scrittori, pittori, registi perché ne facessero un soggetto d’arte, come potrebbe in qualche caso persino apparire a chi, nato dopo, l’ha conosciuta indirettamente e in versione costretta dalla mole di immagini filmiche, poetiche, pittoriche su essa costruite. Ѐ stata una lotta reale, di tanti che vi hanno dato la vita, perché ognuno potesse esistere senza servaggi, nel rispetto degli altri.
La riproduzione artistica che ne è stata fatta, nella maggioranza dei casi, ha rivestito un indubbio valore culturale e tutt’ora assolve a una rilevante funzione educativa. Ma se non si vuole che quanto realizzato vada perduto o divenga materia per arida e vuota retorica, occorre far leva sui sentimenti che hanno animato quell’arte e spinto gli autori a cogliere nei tragici eventi aspetti umanissimi, comprensibili a tutti, nel variare dei tempi.
Celebrare la vittoria sul Nazifascismo è pertanto un obbligo morale per dare rispetto a quei morti e una necessità per rammentare ai presenti quanto fragile e vulnerabile sia la libertà e quanto vada protetta e curata da nuovi nemici, che hanno volti diversi da quelli già visti, ma ancora cattivi e capaci di generare soprusi.
...Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta (Dante, Purg. Canto I).

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