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GOBETTI, IL LIBERALE ERETICO

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GOBETTI LIBROTonia Orlando, Piero Gobetti. Un chierico che non ha tradito, Ianieri Edizioni 2022. Un libro scritto con una passione che non impedisce la ricerca della massima obiettività possibile. Con una scrittura semplice e, insieme, profonda.

 RECENSIONE NICOLA RANIERINell’introduzione l’autrice dichiara di essersi imbattuta anni addietro in Gobetti e di non aver mai smesso di amarlo, tanto che oggi quelle sue vicende audaci e temerarie la appassionano e la commuovono più di ieri, spingendola a riaffrontarle in una nuova ricerca su di lui che seppe vivere e morire per le sue idee, per un diverso modo di intendere il liberalismo, l’azione e l’impegno politico. Un modo talmente nuovo da risultare di viva attualità pure nell’oggi e quindi da ricostruire con la massima obiettività possibile senza cedere a interpretazioni soggettive che finirebbero per travisarne la figura e la grandezza.
Proprio al fine di conseguire la massima obiettività, nel saggio sono citati di continuo e in corsivo lunghi passi gobettiani in maniera da dar voce a Gobetti stesso. E soprattutto, questo piccolo-grande libro è di un nitore così adamantino da corrispondere alla tempra morale di Piero Gobetti.
L’autrice, infatti, tratteggia o quasi scolpisce una simile moralità esemplare, attraverso la forma e lo stile della scrittura: semplice e profonda al contempo: né intellettualistica né inutilmente complicata, bensì scorrevolissima e talmente sentita da saper restituire l’autentico volto di un giovane che credeva fermamente in una vera rivoluzione liberale e democratica – non contro, ma con la collaborazione del proletariato torinese.
GOBETTIPerciò l’autrice riesce a tenere insieme la maggiore obiettività possibile e il proprio appassionato coinvolgimento in quel che scrive. Perché in lei forte è il bisogno di identificarsi in un giovane divenuto (per molti) il simbolo di cotanta purezza e integrità morale. Quindi sa che obiettività non vuol dire non appassionarsi al pensiero altrui; tanto più se questo incarna anche le profonde aspirazioni pure di chi ne scrive. Anzi, può risultare il modo per essere idealmente autobiografica (per così dire) nel mentre la scrittura ricrea il pensiero-azione di un altro e gli restituisce quel vitalissimo spirito che, invece, muore tutte le volte che se ne parla in forma di un arido saggio, scritto dal saccente studioso senz’anima.
Tonia Orlando introietta a tal punto lo spirito gobettiano che, non a caso, in quarta di copertina ripropone le stesse parole (già citate nel testo) di Gobetti, contro il fascismo e sul suo essere lieto di offrirsi in sacrificio al popolo italiano.
«Siamo sinceri fino in fondo: ho atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali, perché dalla nostra sofferenza nascesse lo Spirito; perché, nel sacrificio dei sui sacerdoti, questo popolo riconoscesse se stesso…».
Egli è fermamente convinto che il comprendere l’immanenza dello spirito e l’allargare i propri limiti concorrano a un unico movimento, da cui ogni giorno può nascere una nuova conquista.
Si tratta di una convinzione che gli deriva dall’immanentismo di Gentile. Prova ne sia che nel 1921 scrisse che proprio Gentile aveva fatto scendere la filosofia dalle astruserie professorali nella concretezza della vita: una concretezza in cui il filosofo si fa profeta dello Spirito immanente, sull’esempio del Deus sive natura di Spinoza o dei romantici dai quali trae alimento l’attualismo gentiliano.
Attualismo che esercitò un qual certo influsso perfino su Gramsci e Togliatti. Ovviamente, prima che Gentile facesse dell’immanentismo e dell’attualismo il pensiero-giuda della rivoluzione fascista; ovvero, quando Gobetti era già morto in seguito ai pestaggi subìti.

Tonia Orlando è così appassionata nello scrivere delle di lui vicende che ne coglie l’essenza profonda, e non le chiude in un rigido sistema; le mantiene, piuttosto, nello “stato aurorale” in cui il venticinquenne – morendo – le lasciò. Ma soprattutto mantiene quelle vicende allo “stato nascente” (come i grandi amori interrotti) perché Gobetti stesso si guardò bene dal sistemare con intellettualistico rigore il proprio pensiero. Affermava, infatti, che: «Per essere liberali non bisogna teorizzare il liberalismo».
Del resto, la stessa libertà può dirsi tale se rimane allo stato di idea che apre, e non si chiude in un concetto che, invece, volendola de-finire, la uccide sul nascere.
A tal punto Gobetti è pervaso di una simile idea di libertà da diventare un liberale eretico: capace di aprirsi al marxismo (di considerare Marx uno dei più grandi liberali) e di coniugarlo con la sua profonda convinzione liberale. Giacché non può esistere un socialismo senza libertà, né un liberalismo senza giustizia sociale. Per questo egli è un liberale eretico, rispetto alla tradizione liberal-conservatrice degli interessi di classe, o addirittura reazionaria poiché connivente con l’avvento del fascismo. Che per Gobetti non è un incidente di percorso, bensì la perpetuazione degli italici mali: cortigianeria, retorica, demagogismo, corruzione oligarchica, trasformismo…
È necessario, dunque, l’incontro tra socialismo e liberalismo per riavviare quel processo risorgimentale interrotto. Perciò le élite – intellettualmente oneste – e il movimento operaio dovevano farsi classe dirigente, per combattere il fascismo e liberare l’Italia dall’immoralità, l’avventurismo, la rozzezza culturale; per combattere innanzitutto Mussolini, che era persino peggiore del fascismo stesso, poiché risvegliava nel popolo i più bassi istinti.
GRAMSCI1Era necessaria, insomma, una rivoluzione nell’economia, nelle coscienze, nell’educazione, secondo la via tracciata alcuni decenni prima da Carlo Cattaneo.
Pure la collaborazione con Antonio Gramsci nasceva dalla necessità di salvare l’Italia, ammodernandola con l’ausilio della forza progressista dei lavoratori e dei Consigli di fabbrica, sorti nel 1919/20 con grandi capacità di autogoverno e sull’esempio dei Soviet della rivoluzione bolscevica, in cui Gobetti intravide un barlume di democrazia.
Certamente i social-comunisti di allora non volevano diventare liberali, né i liberali volevano il socialismo.
Tuttavia Gramsci auspicava anche quella rivoluzione borghese che l’Italia non aveva mai conosciuto, e Gobetti non considerava tale un liberalismo senza giustizia sociale.
Di qui la loro reciproca stima, fondata sulla loro profonda onestà (non solamente intellettuale) nonché sulla radicale avversione al fascismo. Che, infatti, riservò ad entrambi il sacrificio della vita.
L’estremo sacrificio Gobetti lo desiderò affinché generasse nel popolo italiano un moto di ribellione contro il tiranno e la società corrotta, ma pure in ciascuno la volontà di difendere la propria libertà morale: la dignità.
In ciò seguì il magistero del suo maestro ideale, sul cui pensiero aveva svolto la tesi di laurea: Vittorio Alfieri. Secondo il quale, il tiranno – per non esserne schiavi – o lo si ammazza o ci si suicida (o ci si fa uccidere) per ribellione. Che è tutt’altro da una sconfitta. Anzi, vuol dire non piegarsi alla realtà avversa.
È questo uno degli ideali tipicamente preromantici e romantici (o del romanticismo perenne) di cui “il giovane Werther” è la figura emblematica – non a caso Goethe era coetaneo di Alfieri, che aveva intravisto in Foscolo il suo successore come tragediografo. Werther e Jacopo Ortis muoiono giovani: per restare indivisi, per non rompere la propria integrità, per non dividersi da se stessi piegandosi ai compromessi, ai raggiri, all’ipocrisia, al servilismo.
In ciò risiede il motivo profondo che ha suscitato l’innamoramento per Gobetti, in Tonia Orlando.

 

La foto di Piero Gobetti e di Antonio Gramsci risultano di pubblico dominio.