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DALL'OMBRA IL RESPIRO DELLA MENTE

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BARTOLUCCIDall’ombra il respiro della mente, di Rita Bartolucci, Meta edizioni, Treglio, 2018, pp. 112, € 10,00.


Recensione di NANDO CIANCI

A scrivere di poesia, cioè a concettualizzarla, si corre sempre il rischio di sciuparla, poiché essa parla meglio al cuore quando non procede per concatenazioni argomentative ma per illuminazioni che squarciano i veli dell’apparenza, i veli che a volte i concetti stessi frappongono fra noi e l’altro da noi. Le poesie di Rita Bartolucci, però, ci esonerano da questo disagio, perché in esse i due aspetti della comunicazione stanno in confortante equilibrio. Filosofia e poesia si danno la mano, portando l’una le eterne domande dell’uomo (di che son fatte le cose, come posso conoscerle, da dove vengo, dove vado e, soprattutto, che ci faccio in questo mondo?) e l’altra lo stupore che la natura, le persone, il mondo, la vita suscitano costantemente nelle anime sensibili. Creando un gioco di contrasti, immaginativi e concettuali, a partire da quello tra luce e ombra, che finiscono con il trovare una composizione vivente mercé la riflessione di cui l’autrice fa oggetto le sue intuizioni e attraverso il ritmo stesso del procedere dei versi. Perché solo ad uno sguardo distratto il ritmo può apparire un fattore esteriore e più o meno abbellente: i filosofi e i poeti sanno bene che nel ritmo c’è la vita dell’uomo, che nel ritmo del battito del cuore -che è prima di tutto un sentire- principia la vita e l’accompagna sempre, facendosi musica, poesia, parola, espressione. Non a caso gli antichi, che la sapevano più lunga di noi, «dicevano che l’educazione è musica» e che la «pedagogia è danza, parola, suono»[1].
In questo gioco di contrasti ritmati, Bartolucci percorre un itinerario che tocca vari registri espressivi e attraversa diverse regioni dell’anima. All’inizio il tono è di aggraziata dissacrazione verso i maldestri emuli di Leopardi: si fa beffe del poeta che vorrebbe ergersi a ricettacolo dei mali del mondo e illuminare le plebi sofferenti di più terrestri malanni. Così come si fa beffe del conformismo con il quale ci si pone di fronte agli spettacoli della natura (ridotti a “sepolcri di conoscenza”) e offre uno sguardo capace di cogliere persino in un cardo o in un cavolo bellezza regale e commovente. Proprio la Natura è uno dei filoni nei quali possiamo raggruppare le poesie di questo libro. Leggendo le prime pagine del quale si direbbe di trovarsi di fronte ad una poesia che nasce in mezzo ai campi e di lì si irradia nell’animo di chi se ne lascia stupire e nella mente di chi sa trattenere la mano dal recidere la sacralità del creato e sa così evitare, rinunciando ad afferrarla, che una lucciola si tramuti da «scheggia di fuoco divino» in «piccola larva morente». La natura apre anche nuovi mondi per l’animo umano: la nebbia, per esempio, piò insegnarci come il perdersi non esclude il ritrovarsi, anzi prelude ad esso, perché non è possibile ritrovarsi senza perdersi. A condizione che si accetti di navigare in mare aperto. E sapendo che alla fine si potrà esser felici «solo di aver navigato». Una natura che parla anche attraverso la voce della filosofia («tutto diviene, scorre, niuna cosa sta») e in qualche immagine sembra evocare la psicanalisi («l’impalpabile ha il suo gran peso», l’attesa dei sogni che verranno «A liberare dalle catene l’anima»). E che ci fa ascoltare il respiro del mare che si avvinghia con il vento in una sorta di gioco d’amore da cui esce spossato e che ci invita ad abbandonarci, ancora una volta, alla mutevolezza.
Proprio l’Amore è l’altra grande presenza nelle poesie di Bartolucci. Declinato e vissuta nelle sue tante tonalità. Nel suo essere madre (che guarda la figlia come riflesso di se stessa e, insieme, come liberamente avviata verso l’amore, la scoperta, l’ignoto), nel suo essere figlia (che teneramente parla «Alla madre che si è fatta cielo»), nel suo essere compagna di viaggio (l’amore che è protezione, invenzione, avventura nel mondo, ma anche esplorazione delle profondità dell’io e del “noi”, che è, al contempo, camminare insieme nel sogno e coscienza dell’inevitabile separazione). L’amore che vaga per il mondo incarnandosi in tante storie, nelle cui nascite fa «vestire i panni dell’unicità» e nei cui tramonti passa accanto alle sue creature «con gli occhi che ha per tutti e per nessuno». L’amore vissuto con la tenerezza che segue a passioni vissute e non rinnegate. L’amore colto nella sensualità dell’amato, che si manifesta anche in gesti umili che ne ricongiungono il corpo alla natura intera: la sensualità che si fa terra ed accoglie il mare.
Di tanti altri temi è ricco questo libro, nel quale l’autrice incontra il passato e il presente, il mondo e l’interiorità, sempre con il gioco luce/ombra, laddove quest’ultima non assume la cupezza delle tenebre, (sulla cui soglia si sofferma con delicatezza), ma è a volte dolce, a volte ricca, preludio di vita nuova («Linfa vitale per altra consistenza»), a volte, nel suo trapassare in luce, godimento «di qualche eternità». Un’ombra che sfuma e intenerisce il core[2]: l’andare con il pensiero e con il sentimento a ciò che è stato e a ciò che non ha potuto essere, per esempio, non percorre i sentieri della nostalgia, ma si fa sguardo meditativo sul presente, non rimpianto ma pietas verso la condizione umana che non sa sollevarsi ad evitare «l’avventato sciupio» dell’esistenza che ad ognuno (e alla specie) è data, verso l’uomo che fugge «la morte e vagheggia un altrove/che abbia il volto, la carne, il sorriso/della vita preziosa perduta».
Molto ancora il lettore troverà in questo libro di poesie: un viaggio in luoghi del corpo e dell’anima, l’arte, le stagioni della natura e della propria vita.
Un libro nel quale non c’è improvvisazione alcuna, ma consapevolezza piena del valore della parola, dei mondi che essa evoca, dei richiami filologici che induce, della forza con la quale può squarciare veli interiori ed esteriori. Un uso della parola che è, allo stesso tempo, sorvegliato e sciolto. Una coesistenza difficile da realizzare, perché -e qui torniamo all’inizio del discorso- il prevalere della prima modalità può portare al concettualismo che raffredda il cuore; mentre la seconda, in una penna poco consapevole, può far scivolare in uno spontaneismo che introduce alla banalità.
Nelle poesie di Bartolucci tali pericoli sono scongiurati, per l’appunto, da un equilibrio dinamico da cui nascono pagine che convocano, insieme, la ragione e il cuore. Anche qui: la prima non toglie alla poesia l’alone del sogno e della trasmutazione che le sono proprie; il secondo non fa venir meno lo spessore culturale di una scrittura che ha radici linguisticamente salde.
E che sa accompagnarci lungo la strada che dal cuore conduce alla mente e ritorno.

[1] Carlo Sini, Sentire il mondo, paginette festivalfilosofia, Modena, 2006, pp. 16-17.

[2] Era già l’ora che volge il disio/ai navicanti e ‘ntenerisce il core (Dante Alighieri, Purgatorio, VIII, 1-2);    Primavera d’intorno/Brilla nell’aria, e per li campi esulta,/Sì ch’a mirarla intenerisce il core (Giacomo Leopardi, Il passero solitario)

  

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