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LA VITA E I GIORNI

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LA VITA E I GIORNILa Vita e i giorni. Sulla vecchiaia, di Enzo Bianchi, il Mulino, Bologna, 2018 pp.144, € 13,00. Recensione 
di  NANDO CIANCI.

Venendo dopo l’esplosione di luce estiva, e precedendo il sonno invernale della natura, l’autunno è stagione che può indurre alla malinconia, alla nostalgia di ciò che è andato, alla tristezza per quel che si preannuncia. Ma è anche stagione che riveste la natura di colori sontuosi e offre all’uomo ancora tanti raccolti. Nella metafora che accosta le stagioni alla vita dell’uomo, l’autunno corrisponde alla vecchiaia, età che segue alla maturità e prelude allo spegnersi della vita.
Non si nasconde questa doppia valenza Enzo Bianchi in La vita e i giorni. Sulla vecchiaia, il suo nuovo libro ricco, come sempre, di spunti di riflessione, di meditazione, di ricerca di senso che lasciano nell’animo del lettore la serenità per andare, lungo il sentiero della vita, a tutti gli incontri che esso ci riserva. Sentendosi in intima unità con tutti gli esseri, animati ed inanimati, del creato e preparandosi a lasciarli per un nuovo cammino che, per i credenti, si carica di luce e di speranza. E che per i non credenti si può chiudere senza disperazione.
Il libro comincia, perciò, con una semplice verità che l’autore apprese sin da bambino, che magari spesso ognuno di noi si ripete, ma non sempre meditandone a fondo la profondità: «la vita che dobbiamo vivere è una sola: un’unica vita, non ce ne sono altre!». E che, perciò, richiede la consapevole pratica dell’arte del vivere, vale a dire del saper individuare e praticare la ricerca del bene, la ricchezza di relazioni, l’accettazione di fatica e sofferenza sostenuta dal senso che sappiamo dare alla vita stessa. Mantenendo sempre la capacità di stupore, di meraviglia, di fare esperienza e di trasmetterla a chi giunge a tappe della vita che noi abbiamo già percorso.
La riflessione dell’autore parte da lontano, vale a dire dal mondo contadino della sua infanzia, per rievocarne le modalità di relazione, l’assetto familiare e le condizioni di vita che assegnavano ai vecchi una presenza ed un ruolo che oggi -mutate quelle condizioni- sono scomparse.  A questi mutamenti strutturali se ne sono accompagnati, come sempre avviene, altrettanti di tipo culturale: il mito della giovinezza, l’ansia di molti di restare perennemente giovani, dandosi occupazioni a volte sproporzionate alle loro forze e ritoccandosi il corpo per eliminare i segni del tempo. Bianchi analizza i cambiamenti fisici e dei vecchi, con tutto ciò che essi comportano nella quotidianità e nello stato d’animo. E condivide con il lettore le paure che tutto ciò fa sorgere in chi vive questa stagione della vita. Ma reimmette il tutto in un alveo più grande, che parte dalle sue meditazioni sulle scritture per giungere alla vecchiaia come «un compito e una sfida», che richiede il coraggio «di vivere con semplicità, di vivere il presente senza lasciarsi imbrigliare dal passato e senza guardare al futuro con angoscia», di opporre al decadimento fisico una accresciuta ricchezza interiore. Una dimensione che può essere illuminata solo dall’amore.
Liberati, così, tanto dalle angosce che dalla illusione di poter vivere una perenne giovinezza, potremo con serenità “lasciare la presa”, aprirci con fiducia ai giovani, lasciare ad essi responsabilità che non ci competono più, accettare l’incompiutezza del nostro essere stati e del nostro essere, liberare il nostro tempo e la nostra interiorità per volgerci alla gratuità del nostro fare e per praticare l’arte del ricordo. E sentirsi in intima comunione con il tutto, trasmettere patrimoni di conoscenza, praticare la convivialità e l’amicizia, leggere, scrivere, accogliere la diminuzione dei sensi, camminare, ascoltare. Insomma stare al mondo, portando con sé la pienezza del proprio passato e del proprio presente. E prepararsi alla partenza definitiva, riscoprendo una sapienza antica che è stata dimenticata: che l’ars moriendi è parte dell’ars vivendi. Anche su questo Bianchi ci offre pagine preziose di riflessione, cogliendo anche il paradosso di una società che ha rimosso la morte (evento naturale nelle società contadine) facendo aumentare la paura di ciò che la precede. Di una fase, cioè, che è anch’essa parte della vita e che va liberata dalla sofferenza inutile, a proposito della quale Bianchi dice parole che per un cristiano sono coraggiose, ma che egli fonda su figure religiose autorevoli: «il dolore fisico non redime, ma quasi sempre disumanizza». Sì che esso va allievato e non accompagnato da un inutile procrastinare del momento del decesso. E richiede che gli ospedali non siano luoghi aziendali, ma vengano pervasi da un umanesimo salutare quanto le medicine.
Anche nell’affrontare il congedo dalla vita dunque, Enzo Bianchi ci trasmette serenità, speranza, persino dolcezza. In un libro che, parlando della stagione del tramonto, finisce con l’essere un inno alla vita, «perché vivere è comunque un grande dono che desta gratitudine, anche quando la vita è grama». E perché, che si sia o credenti, c’è sempre in essa, e in fondo ad essa, una speranza: «l’amore che vince la morte è un messaggio che vale la pena di viver già qui e ora».
Coerente conclusione di un libro che si presta poco ad analisi fredde e a commenti distaccati, perché la sua lettura è, oltre che un piacere dell’intelletto, una esperienza di vita e un arricchimento per l’animo. Leggendo si vive, che è un altro bell’insegnamento.

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